LUMINI NEL BUIO -Ribolla: anni '30 e dintorni-

 
 

UNA SCUOLA CHIAMATA GINNASIO

 

  

Non era molto facile, per i ragazzi ribollini di allora, continuare gli studi dopo le elementari. C’è addirittura chi afferma che era impossibile, specialmente se si trattava di figli di minatori. Tutte balle, era solo difficile. Correvano gli anni ‘30, le condizioni non erano certamente delle più favorevoli, ma che di scuole superiori, a Ribolla, non se ne dovesse nemmeno parlare, è quantomeno un’esagerazione.

 Si, perché a me, nato ribollino, figlio e nipote d’operai, torna spesso alla mente una scuola superiore che, se non sbaglio, era chiamata Ginnasio, si trovava a Grosseto, e che, malgrado si dica che non era possibile, mi sembra proprio di aver frequentato. Anzi, pensandoci bene, ne sono sicuro. I viaggi infreddoliti sul barroccino della Montecatini(1), due volte al giorno, per andare la mattina da Ribolla alla stazione di Giuncarico, e tornare nel primo pomeriggio a casa, non sono stati certamente un sogno. E non è stato un sogno quel treno carico di studenti, l’accelerato(2) che dalla stazione di Giuncarico ci portava tutte le mattine a Grosseto. Un quarto d’ora scarso di viaggio. Il tempo necessario, e appena sufficiente, per sottoporre al rito della “masa” (un cappotto sulla testa e poi manate alla rinfusa) o della “tira” (c’è bisogno di spiegare che cosa si tirava?) chi cercava di dare l’ultimo ripasso alle lezioni sullo sferragliante vagone di terza classe. E poi la scuola, in Via Mazzini, dove adesso si trova la Biblioteca Chelliana, gli amici, i compiti in classe, le interrogazioni che ci fioccavano addosso specialmente quando, entrando - ipocritamente trafelati - in aula ad una manciata di secondi dalla fine della prima ora di lezione, invocavamo a nostra giustificazione il ritardo del treno. Una scusa troppo banale, perché l’arcigna insegnante di lettere ci cascasse. Mettendo in dubbio la nostra buona fede (il solo pregio che tuttora si riconosce al “regime” è il perfetto orario dei treni, che non sgarravano mai di un minuto), verificava, seduta stante, la nostra preparazione, e molto spesso, per dirla col Fucini, “ci dava drento”. E allora erano guai.

Ogni volta che il gelo di quelle rigide mattinate invernali si mette a raccontare, sciogliendosi in una miriade di ricordi, la mia memoria è come se andasse a nozze. Riesce ad evocare, nitido e suggestivo, il variegato mondo di fatti, cose, e persone che ruotarono intorno a quella scuola chiamata Ginnasio, che io (ed altri come me), figlio e nipote di lavoratori, a dar retta a certi storici, non avrei potuto frequentare. Neppure da pensarci, dicono.

Invece, una miriade di ricordi. Un turbinio dal quale, ogni volta che ritorno a quei giorni, tra le prime ad emergere e a fermarsi davanti a me, sono due figure femminili che con la scuola c’entravano solo fino ad un certo punto. Mia madre, che tutte le mattine si alzava prima delle cinque, e dopo avermi preparato il caffellatte e le fette di pane “crogiato”, combatteva contro di me la battaglia del risveglio. Vinceva sempre lei, nonostante lo scontro fosse abbastanza duro e richiedesse tutta la sua pazienza.

 Per impedire che ricadessi nel sonno mi parlava in continuazione mentre, con gli occhi ancora semichiusi, cercavo con scarso successo di fare in modo che la fetta di pane andasse ad inzupparsi dentro, e non fuori della tazza del caffellatte. E non mancava, prima di mettermi fuori della porta, di tracciare sulla mia testa d’adolescente, con rigore matematico, la più bella scriminatura di cui fosse capace.

Mia nonna, che ogni sera, verso le otto subito dopo cena, coinvolgendo anche mio fratello, se ne usciva con la sua frase rituale: “Ovvìa ragazzi, a letto. Domattina è lì che viene”.

 

(1)                 I viaggi in barroccino erano, come si direbbe al giorno d’oggi, in offerta gratuita.

(2)                 L’abbonamento al treno era alla portata del più povero dei minatori,  con indosso la dignitosa miseria che c’era a quei tempi a Ribolla. Ma costava così poco che avrebbe potuto pagarlo anche chi si fosse trovato in uno stato d’indigenza pari a quello così assoluto, estremo, squallido, che gli storici a senso unico hanno costruito nelle loro aberranti elucubrazioni.

 Vilmo Radi

 

 

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