LUMINI NEL BUIO -Ribolla: anni '30 e dintorni-

 
 

L’ALBA DEL CALCIO

 

             

           Di fianco alla strada per Giuncarico, poco prima del Reparto, faceva da stadio uno spiazzo di terreno senza uno straccio di recinzione, sul quale, a distanza non proprio del tutto fuori delle regole, erano stati piantati i pali delle porte.  La mattina delle Domeniche nel pomeriggio delle quali era prevista una partita, un operaio, con una carriola piena di calce, lo rigava secondo uno schema abbastanza somigliante a quello degli stadi veri. Le porte non avevano reti. Non c’erano spogliatoi, e nemmeno docce. Non ricordo dove si cambiassero d’abito i giocatori della squadra ospite. Forse nel camion che li aveva portati a Ribolla. I nostri, che si cambiavano a casa loro o nei locali del Dopolavoro, arrivavano al campo già in divisa da gioco.
            Quel che ricordo bene, invece, è quanto avveniva durante le partite. Ogni fischio dell’arbitro contro i nostri giocatori era preso dai tifosi come un’offesa personale che andava, per fortuna solo a parole, lavata col sangue. Poteva anche succedere che qualcuno entrasse in campo per chiedere, all’arbitro stesso e con atteggiamento non del tutto affettuoso, conto e ragione del perché avesse fischiato. Meno male che c’era sempre qualcuno, tra i giocatori o i tifosi, che si premurava di riportare di peso l’esagitato ai bordi del campo.
          
All’arbitro, tutto il mondo è (sempre stato) paese, si rinfacciava ad ogni piè sospinto la spregiudicatezza dei costumi della moglie, facendogli comparire sulla testa attributi che magari non gli competevano perché scapolo. Quando le cose sul campo andavano bene, l’epiteto più frequente che accompagnava la parola “arbitro” era “bilurchio”, che penso esprimesse un più che fondato dubbio sull’efficienza della sua vista.

           
Un rigore? Difficile che fosse contro di noi (come del resto era difficile che fosse a nostro favore quando giocavamo fuori casa), ma quando l’arbitro osava arrivare a tanto, e il tiro andava a segno, a furor di popolo se ne chiedeva la ripetizione. C’era addirittura chi aveva lo spudorato coraggio di contestare il gol anche quando il pallone, ormai oltrepassata la linea bianca, era stato rimandato in campo da qualche spettatore subdolamente posizionatosi, con numerosi altri, tra i montanti della porta. Si, perché in occasione dei rigori, quasi tutti i tifosi entravano nel terreno di gioco, formando con i loro corpi un triangolo isoscele la cui base andava, alle spalle del portiere, da un palo all’altro della porta, e i due lati si univano dietro il giocatore pronto al tiro.

 
Se si vinceva, poteva anche succedere che, per ritrovare l’armonia perduta sul campo, tutti i giocatori della squadra avversaria fossero invitati al Dopolavoro per una rifocillante merenda bagnata con qualche buon bussolotto. Alla festicciola poteva partecipare anche l’arbitro, ma solo se aveva concesso, durante la partita, quel rigore che qualcuno, prima di entrare in campo, gli aveva consigliato in tono mellifluo di assegnarci mentre, mostrando un interesse insinuante e insincero, gli chiedeva notizie sul suo stato di salute e quello dei suoi familiari

UNA PARTITA A BOCCHEGGIANO

           Fin dall’anno della sua fondazione (mi pare il 1925), la squadra di calcio di Ribolla disputava tornei che in genere vedevano di fronte sempre le stesse squadre, in rappresentanza di quasi tutti i paesi delle colline metallifere sedi di miniere. Quelle di Boccheggiano e Gavorrano erano tra le più agguerrite, e ogni partita giocata con l’una o l’altra, più che uno scontro al limite dei regolamenti (che ben pochi del resto conoscevano a fondo), era una sfida all’incolumità personale d’ogni giocatore, che rischiava gambe e testa in una sorta di guerra in difesa dell’onore del proprio paese.
           La prossima partita, il Ribolla avrebbe dovuto giocarla proprio a Boccheggiano. La settimana era trascorsa in un clima da derby, e gli allenamenti al campo del Reparto erano stati giornalieri e intensi. Si prevedeva che la squadra sarebbe stata (come sempre nelle trasferte) accompagnata da un nutrito gruppo di tifosi, e per questo la Direzione della Miniera aveva messo a disposizione due camion del Ricchi, gli stessi che giornalmente portavano al lavoro i minatori dai paesi circostanti.
I miei nonni Regoli, che avevano un figlio a Boccheggiano, avrebbero approfittato dell’occasione per andarlo a trovare ed io, con la promessa di vedere la partita, sarei andato con loro. Ci sarebbero stati, insieme ai loro genitori, anche altri due o tre bambini.
           
Alla partenza da Ribolla regnava, nel camion, la calma delle mattinate domenicali, ma già a Montemassi gli animi cominciarono a scaldarsi e i primi canti sgorgarono spontanei. Tra lo sbocco di Meleta e il Gabellino, l’entusiasmo non ebbe più freno. Era il momento del canto tifoso, e il primo coro venne fuori con la spontaneità dell’incoscienza: “Olio, petrolio, benzina minerale, per battere il Ribolla ci vuol la Nazionale!”
            Qualcuno pensò d’avere, ma solo un po’, esagerato, e subito cambiò argomento lanciando, da solo, l’avvio dell’inno principe del Ribolla di allora. Tutti coloro che ancora zampettano per il mondo e che in quegli anni erano ragazzetti che crescevano tra la Bruna e il Raspollino lo ricorderanno sicuramente. Mi piace pensare che l’abbiano tramandato ai loro figli e nipoti, ma ho il forte dubbio che, specialmente questi ultimi, lo intonino durante i viaggi delle trasferte.

            L’esecuzione dell’Inno richiedeva un particolare stato d’animo ed una grande concentrazione. L’orgoglio ribollincalcistico non ammetteva stonature né, Dio ne guardi, astensioni. L’assolo di voce urlava a pieni polmoni: “Primo minutooo!” Tutto il camion echeggiava della stentorea risposta: “Gòòòò!” “Secondo minutooo!” “Gòòòò!” Dopo il terzo minuto, e il relativo “gòò”, i volumi delle singole voci raddoppiavano, le facce si congestionavano di pari passo con il tendersi dei muscoli del collo, e ne veniva fuori un tal coro di carattere così concitato e solenne al confronto del quale quello del Nabucco rischiava di fare la figura del bischero. 

“Noi siamo dieci, si sembra cento
             Col cuor contento si marca gò!
                        Chi è?
             E’ Ribolla, è Ribolla, che rimbomba in mezzo al mar
             Zitti zitti, piano piano, ci vogliamo rallegrà.
                       
Chi gira di qua, chi gira di là
                       
Chi batte le palle per terra
             E questo l’è l’i, e questo l’è l’i
             E questo l’è l’inno di guerra
                        
E tricche tricche tricche tricchetrà
                        
Noi siamo di Ribolla e ci vogliamo rallegrà!” 

Il grande vate autore di questo inarrivabile capolavoro (“Ogni aura tace al suo parlar divino”) si sarebbe sicuramente offeso al sentire che quasi la metà dei coristi, arrivati a specificare che cosa si dovesse battere per terra, dicevano pudicamente “il culetto”, travisando di brutto il senso dell’aulico linguaggio. Questa sovrapposizione di termini era l’unica nota stonata nella grandiosa esecuzione.
         Ma ormai eravamo a Boccheggiano, e l’ansia della partita mi fa trovare immediatamente ai bordi del campo, ricavato in una radura circondata da castagni a poche centinaia di metri dal paese, con le squadre già pronte per il calcio d’inizio.
Non ricordo chi era l’arbitro, ma poiché le partite giocate a Ribolla erano spesso arbitrate da una sola persona, Dino Iori, che era ribollino, tutto lascia credere che sia stato un boccheggianese. Spettatori, che posso dire, centocinquanta, massimo duecento locali, e una quarantina di noi.
         
Perdemmo due a zero. Rolando Niccolaini (rivedo il suo naso storto che sporge dalla visiera di un berretto da passeggio e gli enormi “ginocchielli” che facevano quasi corpo unico con i mutandoni imbottiti e i parastinchi) era un discreto portiere, ma aveva un grosso vizio. Qualsiasi palla gli arrivasse, lui aveva la tentazione di respingerla di pugno; anche se era libero da ogni marcatura. Spesso riusciva a vincerla, questa tentazione, ma in quello sciagurato pomeriggio essa fu talmente subdola e forte che il povero Rolando ne fu sopraffatto, con conseguenze esiziali. Il pugno andò a vuoto e il pallone gli passò non molto lontano, ma quel tanto che bastava perché subissimo il primo gol.
            Il secondo lo segnò “la nana”. Chi era “la nana”? Un folletto tutto pepe, alto poco più di un metro e mezzo (ecco perché aveva quel soprannome), dotato di una velocità esagerata, che giocava ala sinistra  ed era lo spauracchio di tutti i difensori, non solo della nostra squadra ma anche delle altre partecipanti ogni anno al torneo. Quale fosse il suo vero nome, almeno a Ribolla nessuno lo seppe mai. Forse lo sapevano solo i boccheggianesi. Segnava spesso, la nana, e dopo aver messo in porta il pallone si abbandonava ad una corsa sfrenata con le braccia alzate al cielo e la gola spalancata in un urlo interminabile e ripetitivo. Due sole parole: “Gò io!! Gò io!!……..”. L’avevamo sentito urlare diverse volte anche a Ribolla, e al suo sacro furore si contrapponeva il silenzio afflitto di tutti noi. Meno male che poi (a meno che Rolando non andasse per farfalle con i suoi pugni) ci pensavano Sergio Sabatini o Egone Bernardini a rimettere le cose a posto, almeno in casa. Anche quel giorno, malgrado le grida dei suoi scalmanati compaesani, il suo “gò io” riuscì a superare ogni altro clamore.
           L’entusiasmo dei boccheggianesi ebbe modo di manifestarsi anche in un altro momento della partita, in occasione di un fallo (aveva piuttosto le parvenze di un “tentato omicidio”) che mise fuori causa uno dei nostri. Era  Alfredo Semprini, se ben ricordo, terzino come il suo fratello minore Vittorio, che fece coppia con Gastone Guscelli in un Ribolla di almeno dieci anni dopo. Mentre alcuni volenterosi lo portavano a braccia fuori dal campo, quei simpaticoni gridavano a squarciagola: “E uno, ‘n caciaia!” Io non ci giurerei, ma nelle orecchie m’è rimasta l’impressione che abbiano continuato a contare. Almeno fino a due.
            La partita finì tra gli sfottò dei nostri avversari i quali, poiché con noi non è che vincessero molto, non persero l’occasione per dircene di tutti i colori. Da parte nostra, caduta ogni baldanza, covando propositi di rivincita per la prossima partita a Ribolla, ci avviammo mogi mogi verso i due camion che ci attendevano presso il campo sportivo. In quel momento ognuno di noi era distante le mille miglia dal pensare che la giornata, cominciata bene ma continuata male, avrebbe potuto finire anche peggio.
         
Non avevamo percorso che poche centinaia di metri quando il primo camion, quello dove mi trovavo anch’io, ad una curva, forse slittando sul brecciolino, andò fuori strada e fu lì lì per continuare la sua corsa su un pendio piuttosto ripido, che dopo pochi metri cominciava a somigliare un po’ troppo ad un burrone. Fortunatamente la zona era un unico, grande castagneto, e fu proprio un bel castagno che fermò la caduta, opponendosi con il suo tronco alla fiancata del camion ed evitandone in tal modo il completo ribaltamento. L’automezzo rimase appoggiato alla pianta, con le ruote sinistre sollevate da terra.
            Nessuno si fece male. Quelli che stavano sul secondo camion accorsero solleciti in nostro aiuto, e tutti uscimmo senza eccessive difficoltà. Mentre gli uomini cercavano di trovare il modo per rimettere il camion sulla strada, noi bambini ci mettemmo in disparte, piuttosto spaventati, io con mia nonna e gli altri due o tre con le loro mamme. Arrivarono dei boccheggianesi, non so da chi avvertiti, i quali, messe ovviamente in disparte le sfottiture di fine partita, si dettero un gran daffare per aiutarci. Comparvero delle grosse funi di canapa, con le quali fu imbracato il mezzo uscito di strada. Alcune furono fissate alla parte anteriore del secondo camion che, tirando in retromarcia, avrebbe tentato di riportare il primo sulla carreggiata. Altre, passate intorno a due alberi, furono afferrate da tutti i più forzuti, i quali, come se fossero impegnati in un dopolavoristico “tiro alla fune”, le tenevano tese mentre, centimetro per centimetro, si guadagnava terreno verso la sede stradale.
Non appena il camion fu al sicuro tutti emisero, all’unisono, un grosso sospiro di sollievo. E fu così grosso che sembrò più che altro un boato liberatorio pari a quello che avrebbe potuto sentirsi durante la partita se avessimo segnato un gol.
            Ripartimmo che era già notte. Qualche incosciente si mise a cantare “Strada bianca” che però, invece che “velata d’argento” come voleva il testo della canzone, allora assai nota, diventò “velata di ghiaia”, con un chiaro riferimento a quanto era avvenuto. Lo zittio di chi disapprovava non fu preso in grande considerazione, prova evidente che faceva più male il risultato della partita che il pericolo in cui eravamo incorsi. La maggior parte lo stava già dimenticando. Io stesso, che solo qualche ora prima avevo dubitato di poter tornare a casa, così lontana, sano e salvo, ed ero rimasto spaurito e frignante attaccato alle gonne di mia nonna, stavo già meditando su come costruire, a casa, a scuola, ovunque, il racconto del dramma, che avrebbe potuto protrarsi il più a lungo possibile se l’avessi condito, da buon sopravvissuto in scombuglio, oltre che con particolari sempre più tragici dell’accaduto, anche con la descrizione di miei sempre più epici eroismi, determinanti ai fini del salvataggio di tutti (beh, diciamo di alcuni) i protagonisti di quell’avventura in terre lontane.
           Dell’arrivo a Ribolla ho ricordi privi di certezza. Il piazzale del Dopolavoro era piuttosto affollato, ma non saprei dire se lo fosse perché erano giunte notizie dell’accaduto, o solo  perché la gente stava uscendo dal cinema. Forse per entrambi i motivi. C’erano anche mio padre e mia madre, e uno dei due teneva in braccio mio fratello che se la dormiva beato, fregandosene altamente, dall’alto dell’incoscienza che gli assicuravano i suoi circa due anni di vita, del grande pericolo dal quale a stento ero scampato.

              


Vilmo Radi

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