LUMINI NEL BUIO -Ribolla: anni '30 e dintorni-

 
 

LA CHIESETTA AL REPARTO

 


Al Sacerdote montemassino Don Olindo era stata affidata, dal Vescovo, la cura 
delle anime di tutti i ribollini. Oddio, non proprio tutti, perché a Ribolla i mangiapreti non hanno mai fatto difetto, e questi non ci pensavano manco per niente a farsi curare l'anima da Don Olindo. Ne restavano comunque abbastanza per giustificarne la presenza. Per far fronte a questa bisogna gli era stata messa a disposizione, in una delle case del Reparto, la più vicina alla strada per Giuncarico, una stanza di pochi metri quadrati nella quale per molti anni si esercitò il culto religioso. Un tramezzo in mattoni divideva la cappella vera e propria da un bugigattolo che pomposamente veniva definito sagrestia, ma che per le sue ridottissime dimensioni poteva servire al sacerdote solo per indossare e togliersi i paramenti per le funzioni. La cappella conteneva al massimo una trentina di persone, e perciò la Domenica e nelle grandi feste la gente si assiepava anche su di un piccolo prato spelacchiato che si allungava per una ventina di metri fino al vecchio campo sportivo, e che qualcuno aveva il coraggio di chiamare "sagrato".
 Nella chiesucola si entrava salendo due o tre gradini e, dall'ingresso, si poteva vedere sulla sinistra un inginocchiatoio, che con la sua lunghezza arrivava fino alla porta della sagrestia, e sul quale prendevamo sempre posto noi ragazzi. Sulla destra invece, oltre ad un vetusto confessionale c'era, appeso alla parete, un grande quadro solcato da evidenti screpolature, che rappresentava, emergente da uno sfondo scuro, un poderoso santo barbuto con un braccio levato in alto e l'indice rivolto minacciosamente verso un cielo che più plumbeo non si sarebbe potuto immaginare. Arcigno in volto, sguardo corrucciato, quel San chissacchì scrutava proprio noi poveri ragazzetti peccatori che gli stavamo di fronte, e pareva volesse invitarci ad un subitaneo e totale pentimento. Pena l'Inferno. E non c'era verso di evitarne lo sguardo. Potevi metterti all'inizio o alla fine dell'inginocchiatoio, dove ti pareva: quegli occhi continuavano a seguirti, implacabili ed esasperanti.
In mezzo, quattro o cinque vecchie panche di legno scuro erano così ben ordinate da lasciare ancora quel tanto di spazio che consentiva a qualcuno di ascoltare la Messa all'interno, pur rimanendo in piedi.
Nell'angolo della stanza, dalla parte dell'ingresso, una oscillante cordicella saliva verso il soffitto e si perdeva in un foro che la portava dritta dritta a legarsi ad una campanina appesa ad un piccolo manufatto di mattoni e cemento che, a forma di arco, faceva bella mostra di sé sul tetto della casa. Nessuno provò mai a chiamarlo campanile, anche se quel coso ci avrebbe tenuto. Sarebbe stato veramente troppo. Don Olindo, con la sua voce accatarrata, diceva la Messa in quattro e quattr'otto, si toglieva i paramenti, e, prima di ripartire per Montemassi, andava a prendere il caffè che Tommasina gli aveva preparato nella sua casa accanto alla cappella. Alcuni scellerati giovinastri cominciarono a chiamarlo Dondolindo.
 La cosa prese piede, e in seguito ci fu qualcuno che, credendo in buona fede che quello fosse il suo vero nome, finì per farlo precedere da un altro Don, cosicché il poveretto divenne anche Don Dondolindo.
Non disdegnava, specialmente durante le frequenti partite a briscola ingaggiate con qualche minatore, un bussolotto di buon vino e neanche un sigaro toscano, che lo aiutavano a gioire mentre, tra ampie volute di fumo, gettava sul tavolo il suo bel carico che gli avrebbe consentito di vincere la partita. Ed erano guai se le carte non erano un granché o se il compagno non le giocava "a modino". Le spire di fumo si facevano più dense e le cronache riferivano, non so quanto attendibili, di vigorose invettive che per bersaglio non avevano solo il diavolo.
Oltre alla Messa si celebravano, secondo i periodi e gli orari canonici, anche altre funzioni religiose che richiamavano in Chiesa un certo numero di donne, più che altro assai attempatelle, mai stanche di biascicare rosari, che seguivano le cantilene in latino del prete, e rispondevano, naturalmente senza aver capito una parola, in un loro latino del tutto maccheronico, che produceva ovviamente parole e frasi di nessun significato. "Dominus vobiscum" recitava Don Olindo. E loro rispondevano, compunte: "Stutùo". Le Avemmarie, recitate in serie infinite durante i Rosari, terminavano sempre con "...nuncatinora morti nostra amme". Per non parlare poi delle Litanie, durante le quali noi ragazzacci, reprimendo a stento qualche risata, facevamo finta di stupirci quando, al prete che, elencando i pregi della Madonna, recitava per esempio "Mater purissima", le fedeli donnette rispondevano "Ora fo 'nodi"; "Mater castissima", "Ora fo 'nodi". Per quale motivo, ci chiedevamo, dovevano fare i nodi tutte le volte che Don Olindo apriva bocca? 
Qualche tempo dopo, imparando il catechismo per fare la prima Comunione, anche quei pochi (un paio) che non lo sapevano poterono scoprire che la risposta esatta era "Ora pro nobis".


Vilmo Radi

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