LA NOTTE DEI TEMPI

 
 

Ricordi di un lontano passato.

 
  Il più lontano ricordo che ho di Ribolla, paese di polvere e fango cui non poteva essere attribuito nome più appropriato, preso in prestito, si dice, da quell'anemico torrentello che scorreva sotto uno dei "due ponti" sulla strada per la Collacchia, mentre sotto l'altro trovava un po' d'ombra un secondo fiumiciattolo chiamato "Follonica", meno anemico ma altrettanto sonnacchioso del primo, il più lontano ricordo, dicevo, appartiene alla casa dove nacqui all'inizio del secondo quarto del secolo scorso. Una povera casa, di sole due stanze poste una dietro l'altra su uno dei lati corti dell'edificio nel quale abitava, e lavorava, il fornaio Terzo Niccolaini. Anche il suo ultimo figliolo nacque in quella casa. Venne a godersi questo mondo qualche mese prima di me, nel 1926, in un giorno di festa. La su' mamma, Luisa, felice per questa coincidenza, teneva a metterla in risalto ogniqualvolta aveva l'opportunità di far sapere la data di nascita del figliolo: "Il mi' Enzo è nato il 24 Maggio mentre passava la musiha he sonava la hanzone del Piave". 


Ribolla, Agosto 1936. Vilmo e Renzo davanti all' officina meccanica.

E la musica era la banda del paese, che sfilava in testa ai cortei nei quali s'intruppavano in gran numero i Ribollini nei giorni delle festività nazionali.
Agi e comodità, così come nella quasi totalità delle case di Ribolla, non 
abbondavano certo in quella povera, bassa e malandata abitazione, che tuttavia aveva due particolarità che la rendevano unica in tutto il paese. Davanti alla porta di casa, a non più di sette, otto metri di distanza, c'era una enorme vasca piena d'acqua, di una diecina di metri di lato e profonda almeno un paio, divisa in due parti uguali da un muro di cemento e recintata da una rete nemmeno troppo alta, che doveva impedire, a chiunque nella stagione calda n'avesse provato la tentazione, di andare a cercarvi refrigerio. Serviva da deposito per le attività della miniera, e da luogo di raccolta per sciami di zanzare. La seconda particolarità consisteva in un'altissima ciminiera in mattoni, con la sua scala di ferro sul fianco, che faceva apparire ancora più basso il tetto dell'edificio, e pareva bucare il cielo tanto era alta. Quella scaletta poi, sulla quale peraltro non ho mai visto arrampicarsi nessuno, dava l'impressione di continuare all'insù anche dopo la fine dei mattoni. Chi, dalla "bottega di Meca", scendeva verso la casa del Fascio, se la ritrovava sulla destra proprio davanti all'officina elettrica. Rimasi in quella casa poco più di tre anni, fino a quando al mi’ babbo fu assegnata, poco distante, un’altra abitazione posta a chiudere, dalla parte della ferrovia, il grande spiazzo sul quale si affacciavano, tutto intorno, il deposito delle locomotive, la villetta del capo servizio Lorenzo Panti, l’officina meccanica, la casa del Fascio, il deposito di legname e il vecchio garage. Tornare in questa casa per andarvi in cerca di ricordi non costituisce davvero un problema; ci stetti circa sei anni, figurarsi quanti ce ne sono. Ma uno, fra tutti, mi torna alla mente ogni volta che la ricordo. Sono nella cucina, issato sull'acquaio di pietra sotto la finestra, in piedi dentro una grossa catinella piena d'acqua. Mentre la mi' mamma mi sta lavando da capo a piedi, attraverso gli occhi insaponati scorgo nonna Italia che cammina speditamente verso casa tenendo in bilico sulla testa un secchio d'acqua appena riempito alla fonte vicino alla lampisteria, con altri due secchi uno per mano, e, a tracolla, il tascapane contenente il caldaìno con il "mangiare" pel mi' nonno che è in miniera, al "due". Alcune donne che sono con lei, ognuna con il tascapane per il proprio padre, marito, fratello o chiunque la stesse aspettando, sostano nel piazzale in attesa che nonna lasci a casa i secchi d'acqua, per poi riprendere insieme il cammino verso il pozzo. Tutti i giorni, tranne le Domeniche e le altre feste comandate, verso le undici, gruppi di madri, mogli, figlie e sorelle uscivano di casa sciamando in direzioni diverse a seconda dell' ubicazione del cantiere nel quale lavorava il loro congiunto. Portavano, appena cucinato, il pasto caldo che il minatore avrebbe consumato a metà della gita. Di questo spettacolo, cui assistetti per anni, e che ogni giorno si presentava diverso, mi è rimasta, ultima sintesi delle tante elaborate nel tempo dalla mia memoria, una sola immagine, quella appena descritta, come se fosse dipinta sulla tela di un quadro avente per cornice quella finestra posta sopra un acquaio.

Vilmo Radi

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