RIVISTA IN 3 ATTI:

 
  Come si passava il tempo a Ribolla nel terzo decennio del secolo scorso  

     


Locandina del 1940

  Circa settant’anni fa, all’inizio degli anni 30, a Ribolla qualcuno cominciò a darsi da fare per trovare un’alternativa al solito “cine” che costituiva l’unico modo di passare la sera della domenica in un posto diverso dalle “botteghe” del Sabatini, del Mecacci, o da quella del Dopolavoro, gestita da Angelo Bernardini.
Si costituì una “filodrammatica” formata per la quasi totalità da elementi del posto, e vennero le commedie. Almeno una volta all’anno un gruppo di  improvvisati ma bravi e volenterosi attori e attrici, intrattennero con successo intere platee di ribollini. In un secondo tempo si cercarono, e non fu difficile trovarli, giovani e meno giovani in grado di cantare, recitare monologhi o scenette, imitare personaggi noti, tenere insomma in piedi un decoroso spettacolo teatrale di carattere leggero nel quale numeri musicali si sarebbero alternati a numeri comici e satirici.
Il regista di tutti questi spettacoli (un ingegnere di cui non ricordo il nome), e i suoi collaboratori , l’ingegner Cassuto e due impiegati, Lido Berardinelli e Danilo Puccetti, riuscirono anche a portare a Ribolla, per due o tre anni consecutivi, una  sorta di “Compagnia teatrale” che girava in quei tempi  per la Maremma rappresentando per lo più gustose parodie di opere liriche (volte in prosa) e di testi scespiriani. Erano, costoro, una masnada di buontemponi i quali, per meglio accreditarsi al cospetto del pubblico, avevano pensato bene di attribuirsi il nome di  “Brigata dei dottori”. Si diceva che venissero da Massa e che fossero  per la gran parte studenti universitari in cerca non tanto di gloria quanto di qualche soldo che avrebbe dovuto servire – dicevano - per mantenersi agli studi. Nel frattempo coglievano l’occasione per ritemprarsi in allegria dalle massacranti fatiche – assicuravano – sostenute, in lunghe ore trascorse, veglianti, su ponderosi testi di ogni scienza e d’ogni età, nelle loro “nude stanze, fredde e squallide nell’ora di studiar” (come recitava una canzone della goliardia d’allora). In realtà di studenti ce n’erano ben pochi (diciamo pure nessuno), e quei tre o quattro che arrivavano a Ribolla  con il tradizionale berretto a punta fregiato degli addobbi più strani, non è che convincessero più di tanto neppure i meno smaliziati dei ribollini, i quali manifestavano sempre qualche dubbio sulla legittimità del loro diritto a mettersi quel coso sulla testa. Comunque, qualsiasi fosse stata la loro origine o provenienza, ebbero sempre un grande successo.
Anche perché i loro spettacoli venivano insaporiti con  massicce dosi di ironia e di satira che si manifestavano con scherzosi (ma a volte mica tanto) lazzi e motti arguti e mordaci, rivolti a fatti e persone del luogo. Ovviamente quelli della “brigata” non avrebbero potuto conoscere né gli uni né le altre, ma ci pensavano i nostri amici, prima dello spettacolo, a renderli edotti, descrivendo i primi e raccontando vita e miracoli delle seconde. Divertimento per tutti, e, non di rado, solenni arrabbiature di coloro che erano stati vittime di certe battute personalizzate.

            Siamo nel 1940, ossia nell’anno XVIII° E.F. (allora gli anni si contavano così, fin dal 1923 che fu l’anno primo dell’Era Fascista). La “Rivista in tre atti” pubblicizzata nella locandina, affissa un po’ dappertutto a Ribolla, fu rappresentata Sabato 4 e Domenica 5 Maggio (era l’anniversario della conquista dell’impero). Poco più di un mese dopo, il 10 Giugno, cominciò anche per noi la seconda guerra mondiale.
 
Un primo sguardo a questa locandina ci fa  ritrovare Berardinelli e Puccetti, ma non più l’ing. Cassuto il quale, colpevole di essere ebreo, era stato estromesso dalla vita civile in seguito a quell’abominevole legge, da poco emanata, che avrebbe dovuto assicurare,  nientepopodimeno, “la difesa della razza”.
Sono tanti i nomi dei partecipanti, non tutti li ricordo. Il presentatore, ci mancherebbe, non poteva essere che Lido Berardinelli, che poi incontriamo nuovamente, insieme a Danilo Puccetti, nello scherzo comico del secondo atto.
Nel primo atto “La bambola” non si chiamava Marisa Barbato, bensì Marisa Panci, che attualmente sta a Firenze ed è la moglie di mio fratello oltrechè la nonna di un sacco di nipoti. Barbato era il nome di suo padre.
Di Adelia Tognoni  ricordo soltanto che abitava ai Laschi.
Ampelio Balocchi aveva una bella voce. Afflitto da leggera balbuzie, il suo difetto spariva miracolosamente non appena si metteva a cantare. Poteva così  gorgheggiare, con grande agilità e rapidità di passaggi, strofe e ritornelli senza ombra di tartagliamenti. Ricordo come noi ragazzi lo prendemmo simpaticamente in giro quando, dopo aver fatto il servizio militare a Torino, tornò a casa sfoggiando un robusto accento romanesco (o napoletano?), che gli rimase fino a quando il natio vernacolo maremmano non si riprese i suoi sacrosanti diritti.
“Lola” era la bella Mina Moroni, e non Morroni. Il suo vero nome è Antimina. Vive da molto tempo in Libano. Sua sorella Marì è la moglie di Alcide Murgioni, fratello del povero Aldo, detto “Magnolino”.
Nel secondo atto, oltre ai già celebrati Berardinelli e Puccetti, spicca il nome di Beppino Tagliaferri, attore eclettico, versatile, che non rifuggiva, specialmente quando si davano commedie strappalacrime, da atteggiamenti istrioneschi che, esprimendo intenso sentimento, davano carattere di grande drammaticità all’opera rappresentata (indimenticabile “La nemica” di Dario Niccodemi: “Un’atomosfera di ghiaccio, madre mia!!”), provocando in sala  frequenti e rumorose soffiate di naso che tradivano la commozione e il tentativo di nascondere qualche lacrimuccia, che specialmente le donne stentavano a trattenere.
Atto terzo: Enrico Susanna. Un uomo sulla cinquantina, di spiccata loquacità, raccontatore di barzellette. Era suo intercalare un’espressione irriguardosa verso il Padreterno, il quale peraltro non credo si arrabbiasse poi molto, visto che in fondo si limitava a chiamarlo “Dio zuccherino”. Se era in compagnia, e gli altri erano seduti, lui se ne stava, anche per delle ore, accovacciato con il culo sui talloni come – diceva - era necessaria abitudine dei minatori.
La bionda e bella  Mirella Mecacci era, ed è, la moglie di Danilo Puccetti.
Silvio Monti
. La sua “Montanina” evocava cieli azzurri e vette innevate. Tutto il contrario di quanto lo avrebbe aspettato il 4 Maggio del 1954, esattamente quattordici anni dopo, allorchè ebbe la sventura di trovarsi, intorno alle 8,30, insieme ad altri 42 minatori, dentro il pozzo Camorra.
Luciano Manara era un imitatore di artisti famosi, conosciuti principalmente attraverso la radio.
Rimane la “scelta orchestrina diretta dal camerata Ovidio Radi”. I nomi li ricordo tutti, ma non a tutti riesco ad assegnare una fisionomia. Mi è facile per i capelli rossi di Albore Bronzoni,  per Oreste Giannelli con la sua gamba di legno e la chitarra, per Guidino Quarteni, mandolinista, già ala destra di un Ribolla di diversi anni prima, per Mario Paggetti ed Elvio Santoni.
Quanto a lui, Ovidio Radi, era a capo dell’orchestrina, della banda del paese, e da poco anche dell’officina elettrica. Era nella sua natura fare il capo. Negli anni 20, semplice operaio addetto all’officina elettrica, si iscrisse ai corsi specifici che venivano effettuati, per corrispondenza, da una famosa scuola di Torino. Ricordo ancora i titoli dei due libri sui quali studiava e che teneva sul suo comodino. Uno era il “Manuale dell’elettricista”; l’altro il “Manuale del capoelettricista”. E per tornare in tema di musica, non so dove e come  l’abbia imparata. So solo che la insegnò a un sacco di giovanotti di Ribolla e dintorni, i quali, un paio di volte alla settimana, riempivano di suoni e strimpellamenti la nostra vecchia casa della stazione. Lasciando a lui, ovviamente, il privilegio di soverchiarli con gli assolo del suo trombone, che suonava benissimo.
Come si è visto, per quanto rare, le occasioni d’incontro, di partecipazione a questo tipo di avvenimenti, non mancarono.
Quello che c’era da fare veniva fatto con grande entusiasmo, senza altro fine che quello di dare a noi ribollini qualche serata di buonumore e serenità. Insomma, come si suole dire, non si friggeva con l’acqua. E poiché in questi casi non si trattava tanto di friggere quanto di  pervenire alla realizzazione di tutto un complesso di operazioni necessarie alla messa in scena dei diversi spettacoli (alle spese provvedeva il “paternalismo” della Montecatini), tutti coloro che spesero parte del poco tempo libero per partecipare, in qualsiasi ruolo, a questi lavori, avrebbero potuto, a ragione, far proprio il verso che Cecco D’Ascoli rese celebre nel ‘300: “Qui non si canta al modo delle rane”.                                             


  Ho sollecitato la mia memoria, cercando di richiamare ricordi di sessanta, settanta anni fa . Nel caso di qualche imprecisione, che comunque spero non sia di grande rilevanza, nel chiedere scusa agli eventuali interessati,  prego  coloro che , oltre ad aver avuto la bontà e la pazienza di leggere queste righe, posseggano ancora genitori, meglio nonni, che abbiano vissuto quegli anni, di farmi sapere dove ho, assicuro involontariamente, sbagliato.  

Vilmo Radi

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