RIBOLLA

 UNA VOLTA ERA UN VILLAGGIO MINERARIO


LA LOTTA DEI CINQUE MESI 
( Febbraio – Giugno 1951 )

scritto da Erino Pippi.

Il sindacato minatori per frenare l'assurda corsa al cottimo individuale che creava solo divisione fra i minatori, moltiplicava gli infortuni e aumentava i profitti della Società Montecatini, aveva avanzato una richiesta chiamata "cottimo collettivo" che superava l'accanimento individuale per ottenere sempre una maggiore produzione, con un sistema di riconoscimento comune dei risultati ottenuti da tutti, oltre il minimo richiesto dalla Direzione della Miniera, in modo da poter suddividere equamente l'importo del cottimo conseguito collettivamente.
Così i minatori non si sarebbero accollato un maggiore lavoro per un tornaconto personale, ma lo avrebbero fatto per tutti, anche per i più deboli.
Venne avanzata anche la richiesta di nazionalizzazione delle miniere del Gruppo Montecatini e la compartecipazione nella gestione delle risorse, devolvendo una parte degli utili, per migliorare le condizioni di lavoro. Il sindacato Minatori propose che il valore del cottimo prodotto collettivamente venisse così suddiviso:
- 20 % alla Società per ammodernare gli impianti di sicurezza.
- 80 % agli operai ed agli impiegati in base a tabelle e punteggi prestabiliti, ma complicatissimi.
Era però una richiesta utopistica, assurda all'ora, quasi da socialismo reale i cui connotati erano più politici che economici.
La società Mineraria ebbe facile gioco a rispondere negativamente a queste rivendicazioni troppo avanzate per i tempi che correvano e così cominciarono gli scioperi. Venne introdotta una nuova forma di lotta detta " articolata ", con fermate alternate di un'ora per ogni compagnia. In questo modo il danno economico per ogni singolo minatore era la decurtazione di un'ora di sciopero al giorno, mentre per la Montecatini la perdita era totale perché, con le fermate articolate, veniva bloccata quasi per intero la produzione di carbone.
Nemmeno in prossimità delle feste Pasquali gli scioperi giornalieri furono sospesi. Erano già trascorsi quasi due mesi dall'inizio di questa assurda lotta, quando la direzione della Miniera per non subire il danno della mancata estrazione di carbone, ridusse la paga degli operai del 70 % tanto quanto riteneva fosse diminuita la produzione, così venne annullato l'effetto dello sciopero articolato. Ed i minatori si ritrovarono senza "paga": il salario mensile.
Una Pasqua, così triste, all'insegna delle difficoltà per le famiglie dei minatori, non si era mai vista.

Alla lotta per il cottimo collettivo aderirono anche i minatori delle altre miniere delle colline metallifere, anch'esse di proprietà della Gruppo Montecatini, ma con minore accanimento e più defezioni nell'adesione agli scioperi proclamati. Il sindacato Minatori chiese ed ottenne, all'inizio, la solidarietà degli operai chimici che lavoravano negli stabilimenti sempre di proprietà della Soc. Montecatini. Ma il peso della lotta era tutto sulle spalle dei minatori di Ribolla, perché erano i più organizzati e più politicizzati, da sempre in prima fila nelle vertenze contro i padroni della Miniera.
I sindacati UIL e CISL si schierarono dalla parte della Montecatini indebolendo così il fronte operaio.
All'interno della Miniera, ai vari livelli, venivano organizzate le " conferenze di produzione " alternate, della durata di un'ora, che veniva considerata di sciopero. Un minatore leggeva il bollettino sindacale ed invitava gli altri a discutere. All'esterno, nella sala del Circolo, i minatori, tra un turno e l'altro, erano in assemblea permanente. I dirigenti Sindacali e i rappresentanti dei partiti politici che aderivano alla lotta
( C.G.I.L., P.C.I. e P.S.I.) con discorsi un po' demagogici, cercavano di tenere alto il morale dei minatori, perché la lotta era lunga e dura.

La solidarietà delle altre categorie, fin dall'inizio, fu completa: i commercianti e la Cooperativa di Consumo contribuirono con aperture di credito ai minatori che scioperando ricevevano la paga mensile decurtata. I contadini aderivano alla sottoscrizione con il versamento di mezzo quintale di grano per ogni podere. Nei casi più disperati di famiglie bisognose ridotte alla fame, interveniva il sindacato Minatori con la propria Cassa Mutua e con i fondi raccolti con le sottoscrizioni di solidarietà. Non erano poche le famiglie che a pranzo mangiavano pane e radicchio di campo e la sera saltavano la cena.
La lotta dei cinque mesi, per coloro che la condussero dal primo all'ultimo giorno, impose enormi sacrifici, ai minatori ed alle loro famiglie.

Un giovane sindacalista che un giorno coordinava una manifestazione davanti alla Direzione della Miniera si mise nei guai perché aveva visto un anziano minatore, accerchiato dal carosello delle camionette della Celere, che correva il pericolo di essere preso a manganellate, come minacciavano di fare i celerotti. Corse a difenderlo, sottraendolo alle probabili percosse, portandolo, quasi di peso fin sopra una catasta di legname, dove la camionetta non poteva arrivare. Ma il capo guardia che lo aveva riconosciuto e sapeva che lavorava per il Sindacato Minatori, non si fece sfuggire l'occasione e fece la spia al Commissario.
Intanto i poliziotti cercavano chi, con un grosso sasso o una botta d'ascia, una specie di accetta che adoperavano i minatori, aveva colpito un celerotto sfondandogli l'elmetto e procurandogli una profonda ferita alla testa, tanto da dover essere portato urgentemente all'ospedale.

Il Commissario voleva trovare, in tutti i modi, un colpevole e il giovane attivista sindacale era capitato a proposito anche se non c'entrava affatto: quella botta era opera di chi, con quell'arnese, ci sapeva fare.
I carabinieri, prima di notte, andarono a casa del giovane per arrestarlo, ma naturalmente non lo trovarono, era andato a dormire in casa di amici, protetto dal Sindacato.
Lo arrestarono però dopo alcuni giorni, quando tutti pensavano che non vi fosse più pericolo, perché il poliziotto ferito era stato dimesso dall'ospedale con solo una fasciatura alla testa.. Venne arrestato e portato, con la camionetta del Commissario, in Questura a Grosseto.
Il giorno dopo però un pullman carico di minatori e una decina Vespe e Lambrette con i suoi amici, iniziarono il loro carosello intorno alla Piazza della Vasca, davanti alla Questura, con l'intenzione di girare fino a che il loro giovane dirigente non fosse stato rimesso in libertà. Venne rilasciato dopo un paio d'ore e si ebbe l'abbraccio dei minatori e dei suoi amici, come un piccolo eroe.

I minatori di Ribolla erano rimasti soli a proseguire la lotta per il cottimo collettivo che in pochi avevano compreso cosa significasse. Prima si fermarono i minatori delle altre miniere, poi venne meno anche la solidarietà dei chimici e così arrivò la fine.
La lotta dei cinque mesi, come venne poi ricordata, finì con la sconfitta dei minatori di Ribolla e la conseguente vittoria della Società Montecatini. Niente cottimo collettivo. Rimase solo la maggiore presa di coscienza dei grandi temi della lotta di classe, frutto delle centinaia di conferenze di produzione, organizzate direttamente dai minatori, sul luogo di lavoro, per leggere i comunicati del sindacato e per sabotare la produzione di carbone.
Unica conquista che rimase ai minatori dopo 150 giorni di tribolazioni fu la promessa della pensione a 55 anni.
E come se non bastasse, di lì a qualche mese, arrivò il nuovo Direttore della Miniera, l'ing. Padroni, inviato speciale dalla Direzione Centrale della Società Mineraria per " mettere a posto i minatori " e creare le condizioni per chiudere la miniera.
E fu l'inizio della fine!

Il nuovo direttore era l'uomo adatto per realizzare i progetti della Società Mineraria: autoritario, tiranno e dispotico. Non per niente, si diceva, che avesse militato nella Repubblichetta di Salò.
Modificò subito il sistema di estrazione del minerale, per aumentare la produzione e diminuire i costi, esasperando ancor più i ritmi di lavoro e facendo aumentare il già notevole pericolo d'infortuni.
La coltivazione, così si chiama l'estrazione del minerale, fino ad allora era avvenuta con il sistema chiamato a " ripiena " che voleva significare riempire con terra di campo o di cava le voragini create per estrarre la lignite e impedire così le frane e gli accumuli di gas.
Il nuovo direttore impose il metodo a " franamento " lasciando cioè che le pareti ed il tetto della galleria, dopo che era stato estratto il minerale, franassero su se stesse, lasciando grandi sacche vuote, pericolose per eventuali frane e potenziali serbatoi del micidiale gas grisou che esplode ad ogni minima scintilla. In questo caso l'avanzamento, la galleria di testa, da dove veniva estratta la lignite era a " fondo cieco " cioè finiva lì e in caso di frana alle spalle i minatori non avevano via di scampo, rimaneva intrappolati senza nessuna via di fuga.
- Prima o poi faremo la fine del topo….
Le scellerate decisioni del Direttore erano continuamente denunciate dalla Commissione Interna; c'era il pericolo che qualche squadra di minatori restasse intrappolata sottoterra.
Anche i tecnici della miniera, prima sempre schierati a fianco della Direzione, ora manifestavano la loro preoccupazione per i crescenti pericoli che mettevano a repentaglio la vita di chi scendeva in miniera.

Non certo per farsi garante della salute dei minatori, ma di sicuro per dare una cinica riposta a tutti i suoi detrattori, l'ing. Padroni, fece consegnare ad ogni squadra che scendeva in miniera, una piccola gabbia con dentro un porcellino d'india, che faceva da cavia, perché in presenza del gas grisou si agitava, dava segni di malessere e moriva stecchito, segnalando così il pericolo ai minatori che, a quel punto, dovevano mettersi in salvo, di corsa, altrimenti facevano la stessa fine.
Chi protestò per questo assurdo ed antidiluviano sistema di controllo a scapito di strumenti di misurazione più sicuri, venne licenziato e fra questi il Segretario della Commissione Interna che aveva organizzato la protesta e dato la notizia alla stampa.
Ma il peggio doveva ancora arrivare.

     


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