RIBOLLA

UNA VOLTA ERA UN VILLAGGIO MINERARIO

                                                    

                                                                                   

   Agli inizi degli anni ‘50, nel  piccolo Villaggio minerario di Ribolla tutto apparteneva alla Società Montecatini.

   Erano di sua proprietà le case, le strade, l’acquedotto, la Chiesa, l’Ambulatorio, il Dopolavoro (il locale così chiamato  con il Bar e la sala del Cinema ), la Scuola, la squadra di Calcio e naturalmente la Miniera. 

   Erano di sua proprietà, nel senso che risultavano al suo esclusivo servizio, anche il Medico di fabbrica, il Maresciallo dei Carabinieri ed il Parroco.

   - Anche l’aria che  respiriamo è di proprietà della Montecatini.- Dicevano gli abitanti del Villaggio, come oppressi da questa condizione. 

   I minatori, che non volevano essere compresi nell’elenco delle cose possedute della Società, erano in perenne conflitto con i padroni della Miniera. 

 

   Le poche abitazioni del Villaggio, dove abitavano i minatori e le loro famiglie, erano state ricavate usando le vecchie costruzioni ed i capannoni che la società Mineraria non utilizzava più. Costruzioni basse, appiattite: due stanze, camera e cucina, senza gabinetto che, quando c’era, era collocato all’esterno in condominio fra due o più famiglie, spesso numerose. Famiglie  povere, ma dignitose, come sono tutte le persone che vivono onestamente del proprio lavoro: l’umiltà e la fierezza di chi è abituato al sacrificio giornaliero per migliorare la propria esistenza.

   L’ingresso delle casupole era protetto, quasi sempre, da una grande pergola che aveva la duplice funzione di fare ombra e riparare la porta e la finestra dal sole battente dei lunghi mesi estivi, poi a settembre produrre l’uva che, per chi sapeva conservarla, arrivava fresca o appassita fino al Natale. L’uva era un frutto gradito, tanto più che molti la usavano per companatico: pane e uva  era un buon boccone, per chi non aveva altro di meglio da dare ai propri figli che, crescendo, avevano sempre fame.    

   Sotto la pergola si radunavano le donne del rione, in attesa  che i loro uomini finissero il turno di lavoro o per non stare in casa a sfaccendare, facendo rumore e disturbare così il sonno del loro marito, che recuperava le ore perdute nel turno di notte. Erano bravissime nell’adoperare i ferri da calza o ricamare, oltre che spettegolare. Lavoravano la lana, che magari avevano filato loro stesse, per fare calze e maglie per tutta la famiglia, specialmente per gli uomini, ragazzi e mariti, che dovevano cambiarsi spesso. Chi aveva la famiglia numerosa non faceva “pari“ a stare dietro al consumo, all’ora si faceva aiutare da qualche amica, oppure rammendava le calze nei calcagni e le maglie nei gomiti fino a che era possibile. Tra queste c’era chi faceva la maglia anche quando camminava, per andare a fare la spesa allo spaccio della Montecatini o mentre stava in fila, davanti alla porta del forno, per comprare il pane, oppure per riempire i secchi d’acqua, alla fontana pubblica, che sgocciolava acqua solo per qualche ora al giorno.  Facevano la calza senza quasi guardare la punta dei ferri; chiacchieravano e contavano le maglie, dritto e rovescio, diritto e rovescio… e difficilmente sbagliavano, tanto erano allenate.

   Qualcuna di loro cominciava a parlare dei problemi della Miniera, del lavoro  pericoloso dei propri uomini, della Società Montecatini che dominava su tutto e degli scioperi.

 

 

 

 

  Le abitazioni brutte e scomode venivano, per quanto possibile, abbellite con tendine alle finestre e con vasi di fiori, collocati sopra i davanzali  e nei pressi dell’ingresso. Le donne  gareggiavano fra di loro per avere le fioriture più belle. Ai vasi di fiori si alternavano recipienti con piante di rosmarino, di salvia, di basilico e prezzemolo, dagli odori e dai sapori acri, adatti per la cucina e per tenere lontane le zanzare che, altrimenti, all’ora del tramonto avrebbero invaso le case.

 

   Alcuni minatori invece, fra un turno di lavoro e l’altro, coltivavano piccoli appezzamenti di terra, chiamati “orti ”, che avevano avuto in concessione dalla  direzione della Miniera, dai quali ricavavano frutta e verdura per la propria famiglia e si vantavano, con gli amici, per i migliori prodotti ottenuti: pomodori, fagiolini, insalata, patate, ecc. Alcuni allevavano polli e conigli per portare in tavola la carne che altrimenti, se doveva essere  comprata al macello, avrebbe compromesso il bilancio familiare, perché la paga dei minatori era misera e non bastava per mantenere una famiglia, specie se numerosa.   

  C’era anche chi, non avendo la vocazione dell’ortolano o dell’allevatore, passava le sue ore di riposo al Bar mescita, scolandosi “ cinquini “ di vino e poi, nottetempo, razziava qualche pollo o qualche coniglio che altri, con passione e sacrificio allevava. Non di rado venivano scoperti, anche per la spiata di un amico del derubato ed allora erano botte ( scazzottate ) da orbi, essendo questo l’unico sistema vigente per farsi giustizia.

   Il “cinquino “, che si usava nel Bar,  era un bicchiere di vetro, con l’orlo tagliato su misura, che conteneva cinque lire di vino. Come aumentava il prezzo del vino, si abbassava il bordo del bicchiere, così che, oscillando il prezzo del vino, il cinquino costava sempre cinque lire. Questa antica regola godeva dell’approvazione di tutti: oste ed avventori. Era invece oggetto di continue liti la quantità dell’acqua con la quale veniva “allungato” il vino.      

   - Oggi hai esagerato! Il vino non ha più il sapore di ieri, - così veniva accusato l’oste.

   - Sei  te  che  hai  mangiato  troppo  saporito  e  non  puoi  gustare questo vino che è genuino - era la scontata  risposta.

   Anche per questo, per non bere vino troppo annacquato nel cinquino sempre più piccolo, alcuni minatori costituirono un Circolo, con licenza di mescita, che ebbe una parte di rilievo nella storia del Villaggio Minerario di Ribolla. Successe quando la Montecatini sfrattò i partiti ed i sindacati dalle loro sedi e negò la sala del Dopolavoro per le assemblee dei minatori. Per iniziativa del PCI venne costruita la Casa del Popolo, con ampia sala e Circolo ARCI. I minatori si autotassarono sottoscrivendo mensilmente una giornata di lavoro e prestando la loro opera gratis per tirare su i muri e completare gli impianti. Molti minatori, anche per dare una risposta politica e per sostenere le spese di costruzione, offrirono le azioni della Montecatini S.p.A. che avevano ricevuto in omaggio in occasione di qualche ricorrenza. 

   La Casa del Popolo, poi chiamata “ Circolo “ era frequentata, per la maggior parte, dai minatori rossi, quasi tutti comunisti, socialisti e qualche repubblicano, per la maggior parte iscritti alla CGIL. Tutti contro la Società Montecatini, pronti a scioperare se il Sindacato Minatori  lo chiedeva.

   Mentre invece il Dopolavoro era il ritrovo di chi stava dalla parte della Montecatini: impiegati, i minatori democristiani, qualche socialista, ruffiani e crumiri ( chi non aderiva agli scioperi )  e tutti coloro che cercavano lavoro.

 

   Il Villaggio era sorto in una piccola valle ai piedi di tre castelli medioevali, ( Montemassi, Tatti  e Castel di Pietra) circondato dalle colline metallifere dell’alta Maremma, intorno ai  pozzi di estrazione della miniera di carbone: Camorra,  Raffo, Costantino, Cortese e la discenderia  San  Feriolo, che  custodiva, in una nicchia ricavata nella parete rocciosa, la statua di Santa Barbara, la protettrice dei minatori, che vedeva la luce del sole soltanto un giorno all’anno, il 4 dicembre, in occasione del suo onomastico.

   La vallata però non godeva della bellezza delle terre di Maremma. La vegetazione era scarsa, perché il terreno era arso, vi crescevano solo acacie che davano ombra e gli eucalipti che, con le radici prosciugavano i campi paludosi e con il loro acre odore allontanavano le zanzare che la facevano da padrone nella lunga estate del Villaggio.

   Vi regnava ancora la malaria, la malattia tristemente famosa in tutta la Maremma.

   Anche  il clima  faceva la  sua parte:  era pessimo e malsano, caldo e afoso in estate, umido e freddo d’inverno. L’aria era pesante,  inquinata, opprimente  e resa irrespirabile dalla polvere del carbone e dalle strade sterrate.  Insomma  era un brutto posto, offriva una sola cosa preziosa: IL LAVORO, l’oro nero! Come veniva chiamato il carbone che si estraeva dalla Miniera dei Ribolla.

 

   A qualche decina di chilometri esistevano scavi etruschi, che risalivano al VII° - VI° secolo a.c., come dire 2.600 anni fa. Gli etruschi avevano lasciato tracce della loro abilità di minatori con la chiara indicazione che anche loro, qualche secolo a.c. sapevano scavare il minerale dal sottosuolo: conoscevano le tecniche per estrarre il  ferro e il rame. Estraevano il minerale in cave a cielo aperto, oppure scavando pozzi e gallerie. Fondevano il minerale in forni cilindrici, che venivano usati una sola volta: stendevano uno strato di minerale, un doppio strato di carbone vegetale, il tutto coperto e rivestito di argilla ed erbe; esaurita la combustione veniva spaccato il rivestimento e si recuperava la massa di metallo fuso ( ferro, rame ).

 

  A fondo valle scorreva il fiume Bruna, che raccoglieva per tutto l’anno, acqua fresca e limpida, proveniente dalle colline metallifere, ed era alimentato dalle sorgenti sotterranee del Lago dell’Accesa. Correnti rapide sulla ghiaia bianca che solo a valle, prima di gettarsi nel mar Tirreno, si allargavano fuori dagli argini, alimentando le acque melmose della palude, che era la causa delle ultime febbri malariche.

   Il fiume Bruna tagliava in due la vallata  ed attenuava, per quanto possibile, il caldo soffocante di quattro mesi all’anno e la sua brezza mitigava la polvere di carbone della Miniera, che rendevano l’aria impura e irrespirabile.  

  Appostati sugli argini del fiume alcuni dilettanti pescavano con lenze improvvisate ghiozzi e carpe; altri con reti, tagliando la corrente da una  sponda all’altra, tiravano a riva pesciolini buoni da friggere. Altri ancora con le mani, catturavano  anguille e rane, dentro le loro tane, sotto il livello dell’acqua.

   Di nascosto, non solo perché era proibito, ma osteggiato dagli stessi pescatori dilettanti, qualche male intenzionato, catturava i pesci, avvelenandoli con l’erba “ mora “, un tipo di erba che cresceva in riva al fiume e che sviluppava una sostanza tossica se triturata fra due sassi e poi gettata dentro un laghetto artificiale  ricavato lungo il fiume, costruendo una diga provvisoria: i pesci, piccoli o grandi, che rimanevano imprigionati nel laghetto morivano tutti e nel giro di pochi minuti venivano a galla a pancia in su. In questo modo, per catturare qualche chilo di pesce, si distruggeva la vita del fiume.

   Gli argini erano ricoperti di fitta vegetazione, vi crescevano  anche alberi d’alto fusto: pioppi, ornelli e qualche querce, e formavano “ l’habitat “, l’ambiente naturale per animali selvatici: pettirossi, tordi, merli, ghiandaie e beccacce. I pochi minatori che possedevano una doppietta, cacciavano non solo per sport, ma perché la selvaggina era un boccone prelibato. Chi possedeva un cane bene addestrato, metteva nel carniere anche qualche lepre o qualche fagiano.

   I ragazzi del Villaggio, nelle giornate più calde, andavano a fare il bagno nel fiume, organizzando tuffi dalla base del  pilone del ponte e gare di nuoto contro corrente per mettere a prova la loro resistenza.

   Il fiume quindi era fonte di vita, non solo per la specie animale, ma anche per l’uomo. E lo fu fino a quando la Montecatini  non vi incanalò il “ Gallerione” che portava a valle  l’acqua di spurgo delle gallerie di scolo proveniente dalle Miniere di Pirite. Tempo un mese le acque limpide del fiume si trasformarono in fango e melma rugginosa ed il suo letto divenne di colore rossastro. Morirono pesci e ranocchie, la vegetazione sugli argini seccò come bruciata e gli animali del bosco e dei campi non trovarono più acqua da bere perché era inquinata da sostanze tossiche.

   A quei  tempi non era possibile chiedere alla società Montecatini di attivare un depuratore per non inquinare un fiume. La legge del massimo profitto che regola le attività di qualsiasi società per azioni, impone loro di ghermire tutto ciò che è possibile,  pagando il minimo prezzo, meglio se gratis, come quando si saccheggia la natura.     

  

   L’esistenza delle trecento famiglie e degli  “scapoli “ del Villaggio  era organizzata sugli orari  di lavoro della miniera. La sirena ogni otto ore, ordinava il cambio della  “ gita “, come si chiamava il turno di lavoro: ore 7, ore 15, ore 23. Otto ore di lavoro continuo, sottoterra, per sei giorni di fila: 48 ore per settimana, con la sola domenica di riposo. Spesso le ore settimanali di lavoro diventavano 56 ed anche 64 per le “ doppie “: due o tre turni consecutivi senza uscire di miniera, che i minatori con la famiglia numerosa accettavano  “volontariamente “ per il  maggiore guadagno che gli procuravano.

   All’uscita della gita del primo turno, alle ore 15, i bambini e le mogli più giovani si incamminavano lungo il sentiero che percorrevano i minatori, felici di incontrare il loro padre o il loro marito  che ritornava a casa per lavarsi, rifocillarsi e poi riposarsi ed essere pronto per il turno successivo. Felici anche di poterlo riabbracciare, perché il pericolo di infortuni, spesso mortali per chi lavorava in miniera, era quasi giornaliero.

   Rivedere il sole ( o le stelle ) alla fine di un turno di lavoro di otto ore nelle viscere della terra era come ritornare alla vita: - un altro giorno è passato! - Questo era il primo pensiero dei minatori quando uscivano all’aperto.

 

  Gli scapoli, ovvero  i minatori senza famiglia, fuggiti dalla miseria dei loro  paesi d’origine, erano giunti a Ribolla provenienti  dalla Calabria, dalla Sicilia, dalla Sardegna, dal Veneto, dalle Marche e dal vicino Monte Amiata. Abitavano nei  “camerotti “, i dormitori collettivi, dove erano collocate dieci - dodici brande, con altrettanti armadietti per contenere le poche cose personali. Vivevano come in caserma o come negli ospedali. Quando uno russava, gli altri non potevano dormire. Se uno  andava al gabinetto, dato che c’è n’era uno soltanto, tutti gli altro dovevano aspettare.

   Fili di ferro tirati da una parete all’altra servivano per appendere e fare asciugare i panni lavati o sudati. Per ogni branda pendeva, dal soffitto, una specie di gabbia per contenere la scorta delle vivande, perché, se conservate diversamente, sarebbero state facile preda dei topi, veri e propri predatori.

   Agli abitanti ed agli scapoli residenti a Ribolla si aggiungevano i minatori, ed anche  tra questi molti emigrati, provenienti giornalmente dai paesi limitrofi ( Tatti, Montemassi, Roccatederighi, Sassofortino, Roccastrada e Torniella ) che venivano a lavorare in miniera.

  

   Una varietà di abitudini e costumi diversi, spesso in contrasto tra loro, creava una convivenza non certamente facile. Gli scapoli trascorrevano le ore di riposo oziando, giocando a carte, discutendo di sport, di politica, del lavoro in miniera, del pericoloso gas grisou e degli infortuni. Qualcuno leggeva i bollettini del Sindacato Minatori.

   Qualche volta, ubriachi, davano corso a liti, che finivano in scazzottate e richiedevano l’intervento dei Carabinieri, i quali facevano rapporto non solo al loro Comandante, il Maresciallo della locale Caserma ma, in modo ancora più dettagliato, al Capo Guardia della Società Mineraria, che aveva in assoluto,  il potere di sanzionare  punizioni a suo insindacabile giudizio, tanto la Direzione della Miniera  approvava il suo operato, anzi essa incoraggiava questo suo atteggiamento repressivo per tenere a bada “ gli indisciplinati “ .                                      

   Il Capo guardia era, dopo il Direttore della Miniera, il vero padrone del Villaggio Minerario.

 

   I giovani scapoli, siciliani, sardi, marchigiani, talora si sposavano con le ragazze del Villaggio generando matrimoni difficili. Se si volevano bene sapevano sopportare le differenze delle culture, delle abitudini e delle usanze, Ma spesso non riuscivano a convivere e, pur continuando ad abitare insieme sotto lo stesso tetto, ( a quel tempo era impensabile il divorzio ) mal si tolleravano ed i litigi fra marito e moglie erano frequenti,  davano un brutto spettacolo nella tranquilla vita del paese ed erano motivo di pettegolezzi infiniti.   

 

   L’orario di inizio del lavoro veniva  annunciato dalla sirena. Chi si presentava in ritardo veniva rimandato a casa e scattavano i provvedimenti disciplinari. In effetti non sarebbe stato possibile  scendere in miniera per mezzo della “ gabbia “ l’ascensore che, all’inizio di ogni turno, calava i minatori  sottoterra. Dopo questa funzione la gabbia veniva utilizzata per estrarre il carbone e non si poteva modificare un programma con gli orari imposti dalla Società per ottenere la migliore produttività; ogni ora  un numero prefissato di vagoni carichi di carbone estratto dalle gallerie della miniera e portato in superficie, altrimenti niente “cottimo “, la parte aggiuntiva del salario, la più consistente, che permetteva alla Società Mineraria di sfruttare fino al limite della resistenza umana i propri dipendenti. 

   Presentarsi in ritardo al posto di lavoro significava:

- la prima volta una contravvenzione pari all’importo di una giornata di paga.

- la seconda volta il trasferimento in un’altra miniera del Gruppo.

- la terza  il licenziamento in tronco.

   Il licenziamento, come provvedimento disciplinare, era una pratica comune e ricorrente, una minaccia sempre sospesa sulla testa dei minatori. Per un nonnulla si veniva licenziati e non c’era santo a cui votarsi. La Società Mineraria ne faceva un uso discriminatorio per creare divisione fra i minatori più sindacalizzati e quelli appartenenti ai partiti colorati di rosso.

   Chi perdeva il lavoro, per qualsiasi motivo: malattia, provvedimento disciplinare ecc. perdeva anche il diritto all’alloggio e doveva abbandonare il Villaggio, lasciando a Ribolla, parenti, amicizie, interessi  ed abitudini.

 

   Invece gli impiegati, i dipendenti della Miniera che lavoravano negli uffici tecnici ed amministrativi, erano trattati molto meglio dei minatori. Avevano abitazioni decorose con acqua corrente in casa, gabinetto e riscaldamento, tutte raccolte entro un recinto chiamato il Giardino con al centro la palazzina dove abitava  il Direttore della miniera.     

   Il giardino era vigilato giorno e notte dalle guardie della Società Mineraria e da feroci cani lupo.

 

 

   Gli impiegati e le loro famiglie facevano vita appartata. Dovevano, per volontà della Direzione della Miniera, ritenersi di rango superiore rispetto alla massa degli operai, erano sempre schierati in favore della Montecatini, dalla quale, in cambio, ottenevano benefici, piaceri e privilegi. I minatori, e le loro famiglie, invece, erano considerati una moltitudine di basso livello, idonei solo a farsi sfruttare. Una distinzione di classe che condizionava ed avvelenava la vita degli abitanti del Villaggio: da una parte quelli che  “pensavano “ e comandavano, dall’altra la massa che deve lavorare ed ubbidire.                                                              

   Dentro il recinto del giardino, gli impiegati ed i loro familiari, avevano i propri svaghi, il club,  la biblioteca e per fare dello sport  il campo da tennis dove potevano giocare solo loro.

   I ragazzi del Villaggio, figli dei minatori, stavano ore ed ore aggrappati alla rete di recinzione del campo di gioco riservato agli impiegati, per seguire, invidiosi, chi giocava con le racchette e la pallina, divertendosi, quando si verificava qualche rimessa sbilenca o fuori misura, infatti se la pallina da tennis, colpita male scavalcava la rete era perduta: i ragazzi andavano a recuperarla ma non la restituivano ai maldestri giocatori, se la tenevano per i loro giochi.

 

   Non potendo giocare nel campo da tennis regolamentare, i ragazzi,  avevano attrezzato uno spiazzo di terra battuta; al posto della rete divisoria una corda e poi colpi decisi alla pallina, anziché con la racchetta, che non potevano permettersela, con una tavoletta allungata con un manico ( simile ad un paletta ); partite accanite: singolo e doppio, senz’altro con più maestria dei privilegiati del giardino. 

   Per i  bambini e per i ragazzi  era piacevole abitare nel Villaggio. Estranei ai problemi della miniera, godevano di ampi spazzi all’aperto,  nei cantieri e nei depositi della miniera trovavano tanti attrezzi per costruire i loro giocattoli, vecchie ruote o cuscinetti, tavole, catene, tubi di rame, chiodi, viti e bulloni, tutto ciò che occorreva per costruire monopattini, carretti, spade e scudi per i loro giochi infantili non ancora intossicati dall’aspra vita del Villaggio.

  Il gioco che maggiormente li appassionava era il calcio.  Nel campetto dietro la Chiesa o in altri spazi livellati dal tanto correre, si disputavano ogni giorno, accanite partite: scapoli contro ammogliati, piccoli contro grandi, rione Palazzine contro rione Case Nuove, veri e propri tornei dove cresceva qualche campioncino che poi veniva chiamato nella squadra di calcio dell’A.S. Ribolla che militava  in prima serie.

   Non tutti andavano a scuola fino alla quinta elementare. Per un ragazzo smettere prima non era né proibito né criticato, tanto dovevano solo crescere per poi andare in miniera, magari al  posto del padre, quando non era più in grado di lavorare, oppure moriva d’infortunio o di silicosi. E per le bambine, prima si mettevano a fare le faccende di casa, meglio era. Di frequentare le scuole medie oppure le superiori, nemmeno a parlarne; bisognava andare a Grosseto oppure a Siena e solo i figli degli impiegati potevano frequentarle,  perché la Direzione della Miniera concedeva loro sussidi e borse di studio, non per i meriti degli studenti, ma in rapporto al comportamento dei loro padri, che dovevano sempre schierarsi dalla parte della società Mineraria.

   Se qualche figlio di minatori proseguiva gli studi oltre la quinta elementare lo si deveva, quasi sempre, all’opera illuminata del  suo maestro che, riscontrata l’intelligenza del ragazzo o della bambina, convinceva i genitori a sobbarcarsi le spese dei viaggi giornalieri andata e ritorno per Grosseto oppure a pagare la retta mensile in qualche istituto. Lo stesso maestro procurava  la maggior parte dei libri usati oppure acquistati a prezzi  scontati. Questi ragazzi poi, alla fine dell’anno, grazie ai voti che riportavano, ottenevano aiuti finanziari, seppur modesti, dalla stessa scuola che frequentavano.

 

   Negli anni precedenti alle grandi lotte che inasprirono i rapporti tra minatori e Società Montecatini, nel Villaggio di Ribolla, venivano organizzate feste e veglioni con le migliori orchestre e famosi cantanti. Giungevano da tutti i paesi vicini e perfino da Grosseto, per assistere agli spettacoli teatrali ed alle feste da ballo organizzate in concorrenza tra Circolo e Dopolavoro. Sono rimaste famose le serate con Tajoli e Miranda Martino.

 

   Questo era il Villaggio minerario di Ribolla, negli anni successivi alla seconda guerra mondiale, cresciuto intorno ai pozzi di estrazione della Miniera nel cuore della Maremma. Questi i suoi abitanti, una parte con le proprie famiglie, altri, gli scapoli, veri e propri emigranti, con i loro cari lontani centinaia di chilometri.

   Su tutti e su tutto la Miniera, con i suoi problemi che condizionavano la vita del Villaggio.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

   LA MINIERA                                                                                              

 

   Il carbone  estratto  dalla Miniera di Ribolla, era classificato come lignite picea di buona qualità, la migliore estratta in Italia, con le sue 5.000 calorie, molto richiesto durante la guerra e fino alla fine degli anni quaranta.

   I pozzi erano profondi più di trecento metri e scendevano fino al punto più basso dove la lignite, il carbone,  veniva accumulata a mezzo dei ” fornelli “, sorta di botole che da una galleria del livello superiore scaricavano il carbone nella galleria del livello immediatamente inferiore e così via fino al punto di raccolta.

   Nel sottosuolo le gallerie si estendevano, intrecciandosi tra di loro, per una lunghezza di oltre 30 kilometri, formando un vero e proprio paese sotterraneo, con strade, incroci, magazzini, via vai di persone e fuggi fuggi di animali: topi e scarafaggi. Era un vero e proprio labirinto dove, soltanto chi conosceva i percorsi poteva orientarsi per uscire.   

   Lavorare sottoterra, alla profondità di trecento metri, in gallerie sature di polvere del carbone con temperature di 35 / 40 °, esposti a frequenti infortuni, spesso mortali, a causa delle frane, dentro nuvole di grisou, il micidiale gas che esplode a contatto con una semplice scintilla, significa fare cose vicino all’impossibile. E dovevano anche difendersi dalla silicosi, la malattia professionale dovuta alla respirazione di polvere di silice, che spesso si accompagnava alla Tbc.

   Quello dei minatori era considerato l’ultimo pane, - un lavoro da schiavi!- Si diceva.

   Il carbone veniva raccolto alla testa della galleria, detto “ avanzamento “, poi  veniva caricato sui vagoncini che erano  spinti a mano, oppure trainati da asini o muli fino al piede del pozzo e da qui portato in superficie con l’argano che faceva scorrere la “gabbia “ ( il montacarichi ) nel buco nero del pozzo. Una volta all’esterno, il carbone, veniva  fatto salire, a  mezzo di un nastro trasportatore, alla sommità della “Cernita”, il grande capannone sopraelevato ( la struttura è ancora esistente ) dove si sceglieva il carbone, separandolo dai sassi e dai detriti, per essere poi caricato sui vagoni della ferrovia, anch’essa di proprietà della Soc. Montecatini, con destinazione Piombino, per alimentare gli altiforni delle Acciaierie e la centrale termoelettrica, oppure caricato su navi destinazione i porti del Nord dove erano le grandi fabbriche.

   Lungo il nastro trasportatore della cernita lavoravano una ventina di donne, distribuite sui due lati, con il compito di scartare tutto ciò che carbone non era.

   Se  ne raccontano di storie di biglietti d’amore  inviati, fra il carbone, da qualche giovane minatore alla sua bella promessa o desiderata fidanzata, non tutti però andavano a segno e, finendo in mani sbagliate, davano adito a scherzi o maldicenze da far ridere, spesso di cattivo gusto.

 

  Quello che invece andava a segno era  il “ troppolo “ un pezzo di legno, segato su misura, adatto per essere bruciato nella stufa domestica, che i minatori mischiavano furtivamente insieme al carbone. Le donne facevano a gara per accaparrarsene  il  più possibile, perché la legna per riscaldarsi e cucinare scarseggiava ed era costosissima, quasi impossibile da comprare per le tasche di un minatore ed il carbone della miniera non era combustibile per usi domestici.

  Una volta raccolta una sacca ( una piccola balla ) di questa legna sorgeva il problema di portarla a casa, perché era severamente vietato appropriarsi della legna o del carbone che erano, come sappiamo, di proprietà della Soc. Mineraria.

   Chi veniva trovato in possesso del troppolo veniva immediatamente licenziato!

   Per queste donne era quindi difficile  portare a casa  la legna senza farsi scoprire dalle numerose guardie della miniera, che stazionavano fuori dai cantieri all’uscita di ogni turno. Per potervi riuscire erano in uso due sistemi:

- il primo, quello di nascondere la sacca e andarla a recuperare a notte fonda.

- il secondo, aver corrotto in anticipo una guardia che chiudeva volentieri  un occhio per metà del  contenuto,

  o qualcos’altro…

   La vita nel villaggio era difficile, aspra, avvelenata anche da un clima politico esasperato dai conflitti continui tra i minatori e la Società Montecatini.

   La svolta politica del ‘ 48 con la vittoria della Democrazia Cristiana  nelle elezioni del 18 Aprile aveva portato una ventata di repressione. Iniziò la stagione della guerra fredda, l’offensiva padronale  riprese a tutto campo. 

   Tutto peggiorò all’inizio  degli anni cinquanta, quando l’estrazione della lignite, il carbone di Ribolla subì la concorrenza di quello estero. 

   Il piano Marshall aveva aperto le porte ai grandi quantitativi di carbone americano e dei paesi dell’Est che era migliore per calorie e costava meno. Iniziava l’era del petrolio ed il futuro della Miniera era inevitabilmente segnato.

   La Società Montecatini cominciò a fare progetti per ridimensionare la produzione di carbone,   preannunciando i primi licenziamenti, perché la miniera, secondo i calcoli degli azionisti, era diventata  antieconomica.

   Cominciarono gli scioperi contro i licenziamenti  nonché per migliori condizioni di lavoro e di salario. Chi scioperava però imponeva sacrifici  a se stesso e la propria famiglia. Chi non scioperava, i crumiri, erano considerati  traditori e non potevano più liberamente circolare per il villaggio se non nei posti o nei locali presidiati dalle guardie della Società.

 

   Motivo di grandi e infiniti contrasti, era la parte del salario legata al  “ cottimo “.

   Il cottimo permetteva ai minatori di guadagnare di più. Veniva calcolato in base a delle tabelle  “concordate “ con la Direzione della  Mineraria: oltre al normale lavoro, chiamato “ norma “, che poi non era proprio normale essendo spinto al massimo dello sfruttamento, scattava il cottimo Chi entrava in questo campo di applicazione, riceveva in premio una aggiunta di salario chiamato appunto cottimo. Si creavano squadre o gruppi di minatori, chiamate compagnie, discriminando forti dai deboli, bravi dai meno abili. Chi aveva più prestanza fisica guadagnava di più a scapito dei  deboli che non raggiungevano i minimi di lavoro, che venivano di volta in volta, elevati sulla base della produttività dei migliori cottimisti. Era una gara al massacro, i minimi per avere il diritto al cottimo venivano continuamente aggiornati a vantaggio della Società Mineraria ed anche i cottimisti dovevano rincorrere i propri risultati. Se una  compagnia estraeva un quantitativo inferiore alla “ norma “, che consentiva la paga normale senza cottimo,  veniva multata.

   Gli infortuni  erano  numerosissimi  proprio  perché, a  causa  di  questo massacrante metodo di lavoro, non

 c’era il tempo necessario per rispettare le più elementari norme antinfortunistiche

   Il capitolo cottimo era fonte di forti attriti tra il Sindacato Minatori e la Società Montecatini. Le proteste indirizzate al Distretto Minerario,  organo governativo di garanzia,  rimanevano puntualmente senza risposta, essendo anche questo un organismo schierato sempre dalla  parte padronale.

   Nel villaggio la vita scorreva intensamente, fra i problemi della Miniera e quelli dei suoi abitanti, che non trovavano mai un punto d’incontro, perché la Società pensava solo al massimo profitto e le organizzazioni sindacali erano, forse, troppo  politicizzate per saper affrontare i problemi dei minatori e risolverli dal basso: giusto o meno si scioperava anche per un nonnulla.

   I Minatori erano tutti  iscritti al sindacato, molti militavano nei partiti politici di sinistra ed erano ben consapevoli dei loro diritti. Quando si paventò il pericolo della chiusura della miniera, fecero fronte comune contro la Società Mineraria, perché, perdere il lavoro, anche se pericoloso come quello dei minatori, significava, per tutti, portare alla miseria le proprie famiglie.

   - Abbiamo salvato la Miniera dai tedeschi, che volevano allagarla, figuriamoci se lo lasciamo fare ai padroni della Società Montecatini,- dicevano. Ed era vero.    

  

   Durante il passaggio del fronte, i tedeschi, reclutarono alcuni minatori fascisti, perché volevano distruggere la miniera, per non lasciarla produttiva agli alleati angloamericani, che erano già arrivati a Roma.   

   - Uberschwemmen, uberschwemmen. (Allagare, allagare) - ordinavano i Tedeschi.     

   Un  gruppo di minatori,  all’ora  alla  macchia  nelle  Brigate Partigiane,  che  vigilavano  dalle colline sulla

“ loro  miniera “ venuti a conoscenza della sciagurata proposta dei tedeschi, nottetempo chiusero tutte le bocche dei pozzi,  bloccandole con le gabbie, attraversate da grossi travi di ferro e portando via alcuni pezzi indispensabili per far funzionare gli argani, rendendo così impossibile scendere in miniera per danneggiare le conduttore dell’acqua ed allagare così  le gallerie.

   La Miniera stette chiusa una ventina di giorni, il tempo che i tedeschi si ritirassero sul fronte di Firenze. I pezzi degli argani ritornarono al loro posto, vennero tolti le travi di ferro e le gabbie ritornarono a scendere nel pozzo.

   La Miniera era salva !

   Ed ora, a distanza di qualche anno, ci voleva provare la Società Montecatini a chiuderla, perché non guadagnava più come prima.

   - Se ci restituiscono tutti  i profitti degli anni passati -  dicevano i sindacati -  ci sarà il lavoro almeno per altri cento anni.     

      E questa era la Miniera di Ribolla, fonte di lavoro e di vita, ma anche  di ingiustizie e di  tribolazioni  infinite.  

 

 

 

 

 

 

    LE PRIME LOTTE DEI MINATORI

 

   Quel giorno, in piazza, infuriava uno dei soliti scontri fra minatori e Celere. Era stato indetto uno sciopero, di otto ore, per protestare contro la volontà della Direzione della Miniera di licenziare 180 minatori che risultavano in esubero, secondo le diminuite necessità di produzione.

   Alcune centinaia di minatori erano radunati nel piazzale, davanti al Dopolavoro, per un comizio di protesta, che però non era stato autorizzato e così i celerotti, a bordo di una decina di camionette, manganelli in mano  effettuavano il carosello lungo le strade del Villaggio per disperdere i gruppi, se formati da più di tre persone, bordando manganellate a tutti quelli che gli capitavano a tiro. I minatori si rifugiavano sui marciapiedi, dietro le piante, a cavalcioni sopra la staccionata che proteggeva il giardino e qualche volta lanciavano sassi in direzione delle camionette.

   La Celere era un corpo di polizia quasi esclusivamente utilizzato per reprimere le manifestazioni dei lavoratori. I Carabinieri non davano affidamento nell’opera di repressione delle dimostrazioni di piazza, perché storicamente avevano buoni rapporti con la popolazione. Per questo venne creata la Celere, come corpo di polizia politica e subito utilizzata a Ribolla e Gavorrano, altro villaggio Minerario della Montecatini. Alcune camionette con una decina di poliziotti stazionavano sempre, giorno e notte  davanti agli Uffici della Società Montecatini. Questa volta però erano arrivati rinforzi da Grosseto, comandati da un Commissario.

   Le camionette, nel loro vertiginoso girare alzavano una nuvola di polvere perché la piazza era sterrata, il Commissario, con la pistola in pugno, in piedi, su una di queste Jeep urlava ordini insensati, sembrava avesse perso il lume dagli occhi tanto era esagitato. Si seppe poi che non solo lui, ma anche i celerotti avevano fatto il pieno di vino e grappa.

   Meno male che sparava in alto: c’era la paura che accadesse un eccidio come quello di Modena dove morirono sei operai.

   I minatori rinunciarono al comizio, ma non alla protesta. Rifugiati dietro le piante o ai bordi della piazza dove le camionette non potevano arrivare, urlavano i loro diritti, contro i licenziamenti e contro la Direzione, mai contro i celerotti ritenuti anch’essi inconsapevolmente strumenti della volontà padronale, anzi venivano apostrofati amichevolmente:

   - Tornate a casa vostra, avete anche voi una famiglia da mantenere.-

   - Passate dalla nostra parte, lasciate solo il Commissario a leccare il culo al Direttore.-

   - Stasera vi aspettiamo al Circolo per bere un bicchiere di vino. Paghiamo noi.-    

   Qualche celerotto, il viso nascosto sotto l’elmetto tenuto fermo dal sottogola, sorrideva e, forse, approvava.

   A sera inoltrata si addivenne ad un accordo: le parti sarebbero state convocate a Roma, presso il Ministero del Lavoro per trovare una soluzione. Così il terzo turno, la gita delle undici, riprese normalmente il lavoro.

   Successivamente la Società Mineraria ritirò i licenziamenti, ma ottenne ugualmente il risultato voluto trasferendo in altre miniere, più o meno consenzienti, un gruppo di minatori; altri accettarono il  “premio di buona uscita “ di  trecentomila  lire se si licenziavano volontariamente. Molti scapoli, di fronte al pericolo di perdere il lavoro, accettarono questa soluzione  per ritornare ai loro paesi d’origine  sperando di inventarsi qualche commercio con quella somma che rappresentava più di sei mesi di paga.

 

   Questa giornata di lotta fu la prima di una lunga serie, all’inizio per impedire i licenziamenti, poi per scongiurare la chiusura della Miniera. Si interruppe qualsiasi possibilità di dialogo fra le due componenti che regolavano la vita del villaggio: minatori e Sindacati da una parte, Direzione della Miniera e azionisti della Società dall’altra. Gli interessi erano contrapposti, inconciliabili, e non era difficile prevedere chi sarebbe uscito perdente.

   I minatori, dalla ricchezza della miniera traevano ragione della loro esistenza, la Società Mineraria, proprietaria dei giacimenti  carboniferi del sottosuolo, perseguiva soltanto il massimo profitto e quando quest’ultimo veniva a mancare, abbandonava l’impresa. Chi stava a Milano, nel Palazzo, come dicevano i minatori, per indicare la sede Centrale, conosceva solo il valore del “ Dio denaro “.

   L’intervento della celere,  schierata  a fianco della Direzione della Miniera e l’inizio dei caroselli in piazza per disperdere i manifestanti, era un altro segnale negativo per i minatori perché significava che le istituzioni governative ormai erano definitivamente dalla parte del padrone.

 

   La vita del Villaggio cambiò rapidamente, furono organizzate meno feste da ballo, diradarono gli spettacoli. Nessuno più aveva voglia di divertirsi: il pericolo di nuovi licenziamenti era nell’aria, e chi perdeva il lavoro sapeva di essere condannato alla miseria, insieme ai suoi familiari.    

  

   Gli abitati del Villaggio, anziché vivere in armonia tra  loro, per risolvere in modo migliore i problemi di convivenza con la Montecatini e sopportare meglio l’aspra vita che conducevano quotidianamente, facevano di tutto per inasprire i loro rapporti. Inevitabilmente si erano creati raggruppamenti ben distinti, anzi volutamente separati tra loro.

   A livello superiore appartenevano i Dirigenti della Miniera, gli impiegati e le loro famiglie.  Vivevano dentro il giardino recintato e sorvegliato e già questo li estraniava dalla comunità paesana. Per godere di qualche privilegio: buoni stipendi, abitazioni decorose, la possibilità di mandare i figli a studiare nel capoluogo, ecc. avevano dovuto schierarsi in favore della società Mineraria. Era impensabile che aderissero ad uno sciopero, difendevano in ogni occasione gli interessi della Società e, di conseguenza, erano sempre in contrasto con i lavoratori ai quali veniva assegnato  un  livello inferiore.

   I minatori con le loro famiglie avevano poco da scegliere: dovevano difendere il posto di lavoro e se volevano sopravvivere ai pericoli della miniera e, magari, migliorare la paga giornaliera si scontravano contro gli interessi della Società Mineraria. Aderivano al sindacato minatori, emanazione della CGIL militavano nei partiti di sinistra,  partecipavano a tutti gli scioperi ed alle manifestazioni politiche e sindacali, che, in quegli anni, erano organizzate, si può dire, un giorno sì e l’altro ancora.

   La maggior parte degli scapoli faceva vita appartata, soffrendo la solitudine degli emigrati. Alcuni si erano integrati con la popolazione del Villaggio, altri partecipavano attivamente all’attività sindacale, ma molti di loro, dopo il turno di lavoro rimanevano nel dormitorio, per riposarsi, per parlare nel loro dialetto e ritornare, con i ricordi, alle loro terre ed alle loro famiglie.

   Infine i crumiri, quelli che non partecipavano agli scioperi. Vivevano emarginati, insieme ai loro familiari perché, oltre che indebolire la lotta intrapresa dai loro colleghi, si rendevano odiosi per i compensi che ottenevano dalla Direzione della Miniera: premi antisciopero, gite, abitazioni più confortevoli ed erano invisi anche da dalla parte impiegatizia  che  non  voleva  commistioni  con il  “popolino “.

 

  Vennero creati altri due sindacati, la UIL e la CISL che spesso e volentieri si schierano in favore della Società Montecatini.

   La vita, nel villaggio, era difficile  per tutti, ma formava caratteri forti,  coscienze  politiche ben definite: chi lottava per avere riconosciuti i propri diritti, chi si piegava alla volontà del padrone in cambio di qualche privilegio, chi stava a guardare, pavidamente tirandosi fuori dai problemi, risultando poi disprezzato da tutti

   Sul futuro della miniera  e del  Villaggio però,  nessuno più nutriva fiducia!

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

   LA LOTTA DEI CINQUE MESI ( Febbraio – Giugno 1951 )                                               

 

    Il sindacato minatori per frenare l’assurda corsa al cottimo individuale che creava solo divisione fra i minatori, moltiplicava gli infortuni e aumentava i profitti della Società Montecatini, aveva avanzato una richiesta chiamata  “cottimo collettivo“ che superava l’accanimento individuale per ottenere sempre una maggiore produzione, con un sistema di riconoscimento comune dei risultati ottenuti da tutti, oltre il minimo richiesto dalla Direzione della Miniera, in modo da poter suddividere equamente l’importo del cottimo conseguito collettivamente.   

   Così i minatori non si sarebbero accollato un maggiore lavoro per un tornaconto personale, ma lo avrebbero fatto per tutti, anche per i più deboli.

   Venne avanzata anche la richiesta di nazionalizzazione delle miniere del Gruppo Montecatini e la compartecipazione nella gestione delle risorse, devolvendo una parte degli utili, per migliorare le condizioni di lavoro. Il sindacato Minatori  propose che il valore del cottimo prodotto collettivamente venisse così suddiviso:

- 20 % alla Società per ammodernare gli impianti di sicurezza.   

- 80 % agli operai ed agli impiegati in base a tabelle e punteggi prestabiliti, ma  complicatissimi.

    Era però una richiesta utopistica, assurda all’ora, quasi da socialismo reale i cui connotati erano più politici che economici.

   La società Mineraria ebbe facile gioco a rispondere negativamente a queste rivendicazioni troppo avanzate per i tempi  che  correvano  e  così  cominciarono  gli  scioperi.  Venne  introdotta  una  nuova  forma di lotta detta  “ articolata “, con fermate alternate  di un’ora per ogni compagnia. In questo modo  il danno economico per ogni singolo minatore era la decurtazione di un’ora di sciopero al giorno, mentre per la Montecatini la perdita era totale perché, con le fermate articolate, veniva bloccata quasi per intero la produzione di carbone.

   Nemmeno in prossimità delle feste Pasquali gli scioperi giornalieri furono sospesi. Erano già trascorsi quasi due mesi dall’inizio di questa assurda lotta, quando la direzione della Miniera per non subire il danno della mancata estrazione di carbone, ridusse la paga degli operai del 70 %  tanto quanto riteneva fosse diminuita la produzione, così venne annullato l’effetto dello sciopero articolato. Ed i minatori si ritrovarono senza  “paga“: il salario mensile.

   Una Pasqua, così triste, all’insegna delle difficoltà per le famiglie dei minatori, non si era mai vista.

 

   Alla lotta per il cottimo collettivo aderirono anche i minatori delle altre miniere delle colline metallifere, anch’esse di proprietà della Gruppo Montecatini, ma con minore  accanimento e più defezioni nell’adesione agli scioperi  proclamati. Il sindacato Minatori chiese ed ottenne, all’inizio, la solidarietà degli operai chimici che lavoravano negli stabilimenti sempre di proprietà della Soc. Montecatini. Ma il peso della lotta era tutto sulle spalle dei minatori di Ribolla, perché erano i più organizzati e più politicizzati, da sempre in prima fila nelle vertenze contro i padroni della Miniera.

   I sindacati UIL e CISL si schierarono dalla parte della Montecatini indebolendo così il fronte operaio.

   All’interno della Miniera, ai vari livelli, venivano organizzate le “ conferenze di produzione “ alternate, della durata di un’ora, che veniva considerata di sciopero. Un minatore leggeva il bollettino sindacale ed invitava gli altri a discutere. All’esterno, nella sala del Circolo, i minatori, tra un turno e l’altro, erano in assemblea  permanente.  I dirigenti Sindacali  e  i rappresentanti  dei  partiti  politici  che  aderivano alla lotta

( C.G.I.L., P.C.I. e  P.S.I.) con discorsi un po’ demagogici, cercavano di tenere alto il morale dei minatori, perché la lotta era lunga e dura.

 

   La solidarietà delle altre categorie, fin dall’inizio, fu completa: i commercianti e la Cooperativa di Consumo contribuirono con aperture di credito ai minatori che scioperando ricevevano la paga mensile decurtata. I contadini aderivano alla sottoscrizione con il versamento di mezzo quintale di grano per ogni podere. Nei casi più disperati di famiglie bisognose ridotte alla fame, interveniva il sindacato Minatori con la propria Cassa Mutua e con i fondi raccolti con le sottoscrizioni di solidarietà. Non erano poche le famiglie che a pranzo mangiavano pane e radicchio di campo e la sera saltavano la cena.

 

   La lotta dei cinque mesi, per coloro che la condussero dal primo all’ultimo giorno, impose enormi sacrifici, ai minatori ed alle loro famiglie.   

 

   Un giovane sindacalista che un giorno  coordinava una manifestazione davanti alla Direzione della Miniera si mise nei guai perché  aveva visto un anziano minatore, accerchiato dal carosello delle camionette della Celere, che correva il pericolo di essere preso a manganellate, come minacciavano di fare i celerotti. Corse a difenderlo, sottraendolo alle probabili percosse, portandolo, quasi di peso fin sopra una catasta di legname, dove la camionetta non poteva arrivare. Ma il capo guardia che lo aveva riconosciuto e sapeva che lavorava per il Sindacato Minatori, non si fece sfuggire l’occasione e fece la spia al Commissario.

   Intanto i poliziotti cercavano chi, con un grosso sasso o una botta d’ascia, una specie di accetta che adoperavano i minatori, aveva colpito un celerotto sfondandogli l’elmetto e procurandogli una profonda ferita alla testa, tanto da dover essere portato urgentemente all’ospedale.

 

   Il Commissario voleva trovare, in tutti i modi, un colpevole e il giovane attivista sindacale era capitato a proposito anche se non c’entrava affatto: quella botta era opera di chi, con quell’arnese, ci sapeva fare.

   I carabinieri, prima di notte, andarono a casa del giovane per arrestarlo, ma naturalmente non lo trovarono, era andato a dormire in casa di amici, protetto dal Sindacato.

   Lo arrestarono però dopo alcuni giorni, quando tutti pensavano che non vi fosse più pericolo, perché il poliziotto ferito era stato dimesso  dall’ospedale con solo una fasciatura alla testa.. Venne arrestato e portato, con la camionetta del Commissario, in Questura a Grosseto.

   Il giorno dopo però un pullman carico di minatori e una decina Vespe e Lambrette con i suoi amici, iniziarono il loro carosello intorno alla Piazza della Vasca, davanti alla Questura, con l’intenzione di girare  fino a che il loro giovane dirigente  non fosse stato rimesso in libertà. Venne rilasciato dopo un paio d’ore e si ebbe l’abbraccio dei minatori e dei suoi amici, come un piccolo eroe.

 

   I minatori di Ribolla erano rimasti soli a proseguire la lotta per il cottimo collettivo che in pochi avevano compreso cosa significasse. Prima si fermarono i minatori delle altre miniere, poi venne meno anche la solidarietà dei chimici e così arrivò la fine.

   La lotta dei cinque mesi, come venne poi ricordata, finì con la sconfitta dei minatori di Ribolla e la conseguente vittoria della Società Montecatini. Niente cottimo collettivo. Rimase solo la maggiore  presa di coscienza dei grandi temi della lotta di classe, frutto delle centinaia di conferenze di produzione, organizzate direttamente dai minatori, sul luogo di lavoro, per leggere i comunicati del sindacato e per sabotare la produzione di carbone.

   Unica conquista che rimase ai minatori dopo 150 giorni di tribolazioni fu la promessa della  pensione a 55 anni.

   E come se non bastasse, di lì a qualche mese, arrivò il nuovo Direttore della Miniera, l’ing. Padroni, inviato speciale  dalla Direzione Centrale della Società Mineraria per “ mettere a posto i minatori “ e creare le condizioni per chiudere la miniera.

   E fu l’inizio della fine!

 

   Il nuovo direttore era l’uomo adatto per realizzare i progetti della Società Mineraria: autoritario, tiranno e dispotico. Non per niente, si diceva, che avesse  militato nella Repubblichetta di Salò.

   Modificò subito il sistema di estrazione del minerale, per aumentare la produzione e diminuire i costi, esasperando ancor più i ritmi di lavoro e facendo aumentare  il già notevole pericolo d’infortuni.

   La coltivazione, così si chiama l’estrazione del minerale, fino ad allora era avvenuta con il sistema chiamato a “ ripiena  “ che voleva  significare riempire con terra  di campo o di cava le voragini create per estrarre la lignite e impedire così le frane  e gli accumuli di gas.

   Il nuovo direttore impose il metodo a “ franamento “ lasciando cioè che le pareti ed il tetto della galleria, dopo che era stato estratto il minerale, franassero su se stesse, lasciando grandi sacche vuote, pericolose per eventuali frane e potenziali serbatoi del micidiale gas grisou che esplode ad ogni minima scintilla. In questo caso l’avanzamento, la galleria di testa, da dove veniva estratta la lignite era a “ fondo cieco “ cioè finiva lì e in caso di frana alle spalle i minatori non avevano via di scampo, rimaneva intrappolati senza nessuna via di fuga.

   - Prima o poi faremo la fine del topo….

   Le scellerate decisioni del Direttore erano continuamente denunciate dalla Commissione Interna; c’era il pericolo che qualche squadra di minatori restasse intrappolata sottoterra.

   Anche i tecnici della miniera,  prima sempre schierati a fianco della Direzione, ora manifestavano la loro preoccupazione per i  crescenti pericoli  che mettevano a repentaglio la vita di chi scendeva in miniera.

 

   Non certo per farsi garante della salute dei minatori, ma di sicuro per  dare una cinica riposta a tutti i suoi detrattori, l’ing. Padroni, fece consegnare ad ogni squadra che scendeva in miniera, una piccola gabbia con dentro un porcellino d’india, che faceva da cavia,  perché in presenza del gas grisou si agitava, dava segni di malessere e moriva stecchito, segnalando così il pericolo ai minatori che, a quel punto, dovevano mettersi in salvo, di corsa, altrimenti facevano la stessa fine.

 

   Chi protestò per questo assurdo ed antidiluviano sistema di controllo a scapito di strumenti di misurazione più sicuri, venne licenziato e fra questi il Segretario della Commissione Interna che aveva organizzato la protesta e dato la notizia alla stampa.

   Ma il peggio doveva ancora arrivare.

 

 

  

 

 

  

   

 

 

  

 

 

 

   L’OCCUPAZIONE  ( 1953 )

 

   Intanto nel Villaggio Minerario la tensione cresceva, la protesta contro la Soc. Montecatini e contro il Direttore montava ogni giorno di più, occorreva un’azione risolutiva.

   Un gruppo di minatori esasperato oltre ogni limite, progettò di occupare la miniera, come atto estremo contro le condizioni di lavoro, sempre più pericolose, e contro la progettata chiusura della miniera.  Il Sindacato Minatori non era d’accordo ritenendo quella proposta troppo azzardata e pericolosa, ma per non venire scavalcato dai propri iscritti, decise di collaborare.

   Una domenica a notte fonda, una cinquantina di audaci minatori, si calarono, dal pozzo Camorra, nelle gallerie sottoterra, bloccando ogni via di accesso. Un arganista, rimasto sempre sconosciuto, azionò il grande argano del pozzo per calare i minatori a squadre di otto per volta, poi sabotò l’impianto e lo rese inservibile, nascondendo alcuni ingranaggi indispensabili per il suo funzionamento.

   Lunedì mattina ai minatori del primo turno, che si  avviavano al lavoro, venne distribuito un volantino del Sindacato Minatori con il quale si comunicava che la miniera era stata occupata per protestare contro il pericolo delle frane e del gas, contro la chiusura della Miniera e contro l’ing. Padroni, chiedendo loro di unirsi alla lotta iniziando immediatamente a scioperare in solidarietà con l’occupazione. Molti ritornarono indietro, consapevoli che l’atto estremo dei coraggiosi occupanti era per difendere il posto di lavoro di tutti, anche di coloro che non avevano mai scioperato.

   Intanto la notizia era arrivata agli abitanti del Villaggio che si erano immediatamente radunati vicino al pozzo e cresceva l’inquietudine dei compagni di lavoro e dei familiari di quelli che si erano nascosti in miniera.

 

   La polizia aveva circondato la miniera sperando di interrompere i rifornimenti e le comunicazioni con quelli nascosti sotto terra per costringerli alla resa. 

   A questo punto, erano dei veri e propri sepolti vivi!

   Ma i minatori nascosti nelle gallerie ricevettero regolarmente vivande calde a pranzo, a cena e per colazione caffè latte e biscotti, che le donne dell’UDI preparavano in un luogo ben nascosto.

   Mistero fitto su come i rifornimenti arrivassero regolarmente a destinazione. Non si è mai saputo chi e come riusciva a calare i pasti caldi in miniera, forse, si diceva, qualche anziano minatore conosce una vecchia discenderia rimasta abbandona per tanti anni.

 

   All’interno della miniera, gli occupanti, si erano organizzati come meglio potevano per resistere a lungo, il vitto non mancava, il morale era alto perché l’audacia di una azione così  spettacolare creava entusiasmo. Il pericolo non era messo nel conto, erano anni che percorrevano quelle gallerie, che conoscevano come le loro tasche ed il posto dove si erano rifugiati, aveva le volte protette da centine di ferro e dai blocchetti di cemento a prova di frane. La circolazione dell’aria era indirizzata correttamente e quindi non si potevano creare accumuli di grisou, erano insomma sicuri, come si può essere sicuri a trecento metri sotto terra. 

   Avevano predisposto turni di sorveglianza negli incroci delle gallerie che portavano al loro rifugio. Facevano passare solo i compagni conosciuti, che portavano viveri e le istruzioni del sindacato. Se si fosse presentato qualche elemento sospetto non sarebbe riuscito a superare il posto di blocco, perché avrebbero chiuso, da dentro, la porta antifuoco e mai avrebbe potuto raggiungere il gruppo.

   Giocavano a carte, leggevano l’Unità, ricordavano i loro familiari. Raccontavano storie e barzellette e aspettavano. Fiduciosi che la loro azione, così temeraria, desse i risultati che meritava.

 

    Il Villaggio era invaso dalla polizia, dai giornalisti e da tanta gente venuta dai paesi vicini, per assistere di persona a questa eccezionale forma di lotta. Tutti volevano sapere di tutto. La polizia voleva i nomi, i giornalisti volevano addirittura le fotografie, gli sarebbero servite anche solo quelle dei familiari, magari di qualche moglie disperata o di bambini che aspettavano il loro papà.

   - Come avranno fatto a calarsi in miniera ?

   - Quanto potranno resistere ?

   - Come vivono, cosa mangiano ?

   - Quando usciranno ?

 

 

 

 

   Arrivavano, in superficie, biglietti scritti dai minatori, indirizzati alle mogli, agli amici, poesie in ottava rima e strano a dirsi, anzi da non crederci,  avevano voglia di scherzare e prendevano in giro la polizia che non sapeva come fare a tirarli fuori. Promettevano di essere disposti a resistere per molti giorni, fino a che il Sindacati non avesse ottenuto un buon accordo.

                           

   Il Sindacato Minatori sicuro, questa volta, del successo, preparava le richieste da sottoporre alla Direzione della Montecatini. Sul palco dei comizi, in piazza, salivano gli oratori, uno dietro l’altro, senza soluzione di continuità: dirigenti sindacali, politici, autorità, semplici cittadini che portavano la loro solidarietà.

   Negli uffici della Direzione della Miniera era tutto un via vai di dirigenti. Erano stati convocati anche il  Commissario di Pubblica Sicurezza, il comandante della Celere, il Maresciallo dei Carabinieri, il Capo Guardia della Società e tutti i tecnici che conoscevano le gallerie e che avrebbero dovuto saper indicare la strada per arrivare dove erano nascosti i minatori. Invece non riuscivano a raccapezzarsi: non sapendo nemmeno  in quale galleria e a che livello di profondità si erano nascosti e non trovavano volontari che li andassero a cercare.

    Il nervosismo si tagliava a fette!

    L’occupazione durò 72 ore:  tre giorni e tre notti e terminò non per volontà dei minatori.   

   Ci volle l’aiuto di un traditore, un dirigente che in passato aveva militato nelle file del PCI e che conosceva i segreti della miniera, come solo i minatori sapevano, per guidare la polizia nella intricata rete di gallerie che collegavano i vari  pozzi della miniera ed avvicinarsi al posto di blocco senza destare sospetti dei due minatori che montavano la guardia e che vennero accerchiati dalla celere.

   Arrestarono tutti, erano 44. Vennero fatti uscire e per ordine del Direttore Padroni e del suo assistente politico Riccardi,  ammanettati come delinquenti comuni -  per dare l’esempio - dissero vantandosi.

   Furono processati, condannati e licenziati come da copione scritto dalla Direzione della Miniera.

   Un’altra sconfitta: questa era la miniera. Questo era il Villaggio Minerario di Ribolla,  qui soffriva la gente che vi abitava e che non sapeva come sarebbe andata a finire.

 

 

 

 

 

  

 

 

 

   LA SCIAGURA ( 4 maggio 1954)

 

   E la fine non si fece attendere.

   Tutto ad un tratto, una mattina,  verso le otto, la sirena si mise ad urlare e quando lo faceva al di fuori degli orari che segnalavano il cambio del turno di lavoro era un segnale di pericolo e, dato che era atteso da tanto tempo, questa volta era un segnale di morte.

   E non smetteva più, chiamava a raccolta gli abitanti del Villaggio, richiamava a lavoro  gli addetti delle squadre di soccorso, anche quelli dei turni a riposo.

   - E’ scoppiato il gas, è scoppiato il grisou al pozzo Camorra…

   Un convulso via vai di persone, di auto della miniera, di biciclette, tutti si muovevano in direzione del Pozzo Camorra.

   - Come è successo ?

   - Quando è successo ?

   Dopo un’ora già si parlava di decine di morti: due e forse tre compagnie del primo turno  erano state investite dal grisou, il micidiale gas che a contatto del fuoco esplode e provoca una seconda deflagrazione con la polvere del carbone e distrugge tutto.

   - Chi ci lavora nel primo turno al pozzo Camorra ? - e si cominciavano a fare i primi nomi.

   - C’è mio marito.

   - C’è mio figlio.

   Dopo alcune ore ritornarono in superficie i minatori della squadra di soccorso che erano scesi dopo l’esplosione. Si mettevano le mani  nei  capelli, alcuni piangevano, i loro musi neri, solcati dalle lacrime, annunciavano la tragedia.

   - Sono tutti morti, è un cimitero, ci vorranno giorni per tirarli fuori. C’è il pericolo di frane e le gallerie sono piene di gas e di fumo nero.- 

   Era successo al livello meno 260, il fuoco fuoriuscito dalla galleria 31 aveva fatto esplodere il gas. La circolazione dell’aria era stata invertita, perché una ventola non funzionava. Tutti sapevano che il fuoco del cantiere 31 veniva continuamente isolato con tappi di argilla perché non filtrasse aria che lo avrebbe alimentato di ossigeno. Il fuoco aveva abbattuto la protezione ed aveva invaso la galleria

L’inversione temporanea  del  circuito di  aerazione aveva  permesso  ad  una  lingua di  fuoco di entrare in

contatto con il gas grisou, ormai miscelato in proporzioni esplosive. E successe quello che i minatori temevano.

   - Ingegner Padroni assassino!- gridava la folla inferocita accusandolo di aver provocato la sciagura ormai da qualche tempo annunciata.

 

   Era il 4 Maggio 1954.

   La più grande sciagura mineraria del dopoguerra in Italia!

 

   La Società Montecatini non riuscì nemmeno ad organizzare i soccorsi. A differenza della Commissione Interna, che aveva ripetutamente denunciato il pericolo di frane e scoppio di grisou, la Direzione della Miniera non aveva preventivato una catastrofe di tale portata, anzi qualche incidente, anche mortale, doveva averlo messo in preventivo, perché avrebbe accelerato le pratiche per la chiusura della miniera. Mancavano gli elenchi dei minatori che componevano le squadre che lavoravano nel pozzo Camorra, non c’erano sufficienti estintori e respiratori per le squadre di salvataggio che prontamente erano disposte a calarsi in miniera. Dovettero aspettare delle ore prima che arrivassero i Vigili del Fuoco e le squadre di pronto soccorso dalle altre miniere del Gruppo con le attrezzature adatte per calarsi in miniera e superare le difficoltà per portare i primi soccorsi e tentare di salvare la vita di qualche loro compagno, ma trovarono solo morte e distruzione: gallerie franate, piene di ossido di carbonio, calore insopportabile ed i primi cadaveri.

 

   Il Villaggio si riempì di giornalisti, personaggi politici, autorità, chi per dovere, chi per curiosità.

   In molte case del Villaggio la morte aveva già tracciato la sua croce.

 

 

 

 

 

 

   Alle cinque del pomeriggio furono estratti i primi morti, irriconoscibili, perché bruciati dall’esplosione.  Portati in superficie in barella, protetti da coperte o lenzuoli, venivano provvisoriamente collocati nel grande garage della Soc. Montecatini:  ustionati, bruciati, morti  per asfissia o per intossicazione. Il calore era arrivato a 2.000 gradi.

 

   L’opera di riconoscimento fu impietosa e difficile, durò alcuni giorni, perché molti erano carbonizzati e resi irriconoscibili se non da qualche oggetto personale, come orologi o anelli. Gli amici cercavano gli amici e molti i propri familiari. Alcuni svenivano a cospetto del proprio congiunto riconosciuto.

   Ai morti identificati veniva  attaccava un cartello con il nome e, a volte, con il semplice soprannome. Sembrava un cimitero scoperto. Poi chiusi nelle bare venivano portati nella sala del Dopolavoro:

   - 40 in fila, uno a fianco dell’altro.

- 43 alla fine della conta.

 

 La  sala  del  Cinema  divenne  presto  una  immensa  camera  ardente,  le  bare  allineate  una dopo l’altra, 

distanziate dallo spazio appena necessario per permettere ai familiari di vegliare il loro defunto e alle donne dell’Associazione ”Amiche dei Minatori”, che si riconoscevano dal bracciale rosso listato a lutto che portavano al braccio, che offrivano assistenza, non solo a parole, ma tazze di tè e camomilla con qualche biscotto per sostenere soprattutto i familiari delle vittime provenienti dalle Marche, dalla lontana Calabria e dalla ancor più lontana Sicilia.

   Una sposa calabrese abbracciava, piangendo, la bara dove era rinchiuso suo marito. Un bambino non  ancora colpito dal dolore della perdita del padre si distraeva con l’elmetto posto sopra la bara. Due anziani, marito e moglie,  si tenevano per mano, davanti alla bara del figlio bruciato dal gas del pozzo Camorra.  

   La disperazione dei parenti, il pianto dei bambini e delle donne invase l’intero Villaggio.

   Ovunque capannelli di persone che inveivano contro la Società Montecatini ed i suoi Dirigenti, che per conseguire il dannato “profitto “ avevano abbandonato ogni norma di sicurezza e creato le condizioni ideali per causare lo scoppio del gas. Si cercava di portare conforto a chi aveva perduto un congiunto: scene raccapriccianti fra vedove da appena un’ora con altre che erano vedove già da qualche anno. Si abbracciavano per poter piangere l’una sulla spalla dell’altra. E tutti chiedevano giustizia!

   Le donne del Villaggio portavano conforto a quelle arrivate da lontani  paesi che i loro mariti avevano abbandonato per un lavoro in miniera; ora, il loro uomo, vi sarebbe ritornato dentro una bara, perché nel Villaggio Minerario ancora non esisteva il Cimitero per dare una degna sepoltura ai minatori uccisi dalla miniera. Per una S.p.A. come la Montecatini essi, i minatori, avevano un valore solo da vivi, per essere sfruttati, da morti che se ne tornassero da dove erano venuti.

   Persero la vita 43 minatori che scendevano tutti i giorni nelle viscere della terra per assicurare una decorosa esistenza ai propri figli, alla loro donna, ai loro vecchi genitori.

   Nel villaggio aumentò di colpo il numero delle vedove: più di quaranta e quello degli orfani superò i cento.

 

   Queste donne sembrano tutte uguali, vestite di nero, le più anziane con un fazzoletto, anch’esso nero, a coprire i capelli, legato dietro la nuca. Il colore del vestito non era nero per la circostanza della sciagura, le donne del Villaggio e quelle provenienti dal meridione lo indossavano sempre, per tutto l’anno, perché un lutto da rispettare, nelle famiglie dei minatori c’era sempre e comunque ci sarebbe stato nell’immediato futuro. Chi lega la propria  esistenza alla Miniera impara a convivere anche con la morte. 

 

   L’ing. Padroni, al servizio della Società Montecatini, per chiudere la Miniera aveva causato un disastro! Contro di lui era stato emesso mandato di cattura, ma era già fuggito. Non aveva più nulla da fare a Ribolla: la miniera sarebbe stata chiusa, l’ultimo atto era costato la vita a quasi cinquanta minatori. Se si fosse fatto vedere nei pressi della miniera o per le vie del Villaggio sarebbe aumentato il numero delle vittime: il clima era adatto per  una lapidazione.

 

   Le donne dell’Associazione “Amiche dei Minatori”, organizzarono l’assistenza ai familiari che arrivavano dalla lontana Calabria, dalla Sicilia e dalle Marche, trovandogli anche il posto per dormire, ospiti delle famiglie del Villaggio, disperate come loro colpite da questa tremenda sciagura.

 

 

 

 

   La Società Mineraria si fece  da parte, incapace della pur minima reazione, come succede ai colpevoli colti sul fatto. Prima però fece stampare dei manifesti che vennero però strappati un minuto dopo essere affissi, perché la Direzione della Miniera dava la colpa:

 

“A mera fatalità.

 Forse ad una lampada difettosa.

 Oppure  ad  un mozzicone di sigaretta.”

 

   Altro che mera fatalità! I minatori e la Commissione Interna avevano, da tempo e con insistenza, denunciato  i pericoli della coltivazione a franamento e l’assoluta mancanza delle più elementari norme di sicurezza, come una corretta circolazione dell’aria. “ non vi deve essere accumulo di gas, la ventilazione deve essere sapientemente orientata nelle gallerie.” Cosi dicevano le disposizioni di sicurezza del regolamento di Polizia Mineraria.

        I Sindacati insorsero riproducendo, nei loro comunicati, le decine di denunce rimaste sempre senza risposta, non solo dalla Soc. Montecatini, ma dal Distretto Minerario e dal Ministero del Lavoro.

 

   Ma  il  Tribunale di  Verona,  dove il processo venne poi  trasferito  “ per legittima suspicione “  assolse  tutti i padroni della Montecatini ( Dirigenti e tecnici ) “ per non aver commesso il fatto “. Per i Giudici, i 43 minatori di Ribolla erano statu uccisi “ da una tragica fatalità “.

  

   Gli abitanti del Villaggio hanno sempre giudicata scandalosa questa sentenza.

 

   Il giorno dei funerali, alla presenza di oltre 50 mila persone solo a Giuseppe Di Vittorio, segretario della C.G.I.L. venne consentito di parlare e lo fece accusando la Soc. Montecatini e le autorità competenti di strage  premeditata.

  Gli altri rappresentanti del Governo e varie autorità che erano venuti a fare, tardivamente, la loro  comparsa, vennero sonoramente fischiati.

 

   La Miniera chiuse, la Montecatini se ne andò abbandonando tutto. Il Villaggio Minerario si spense come una candela senza più cera.

   Scomparso il Villaggio Minerario, passati pochi anni, gli abitanti di Ribolla, temprati da decenni di dure lotte, ne ricostruirono un altro, non più Villaggio, ma un Paese, quello di oggi, dove la vita scorre tranquilla e serena, guardando al futuro, con tanti ricordi…..

 

     

 

 

 

 

   Alcune pagine tratte da un racconto di Erino Pippi.