L’ARANCIO DI SICILIA

 

  Nell’aia dietro al cascinale, un uomo, infagottato in una giubba di fustagno, le braccia penzoloni sui fianchi, osservava, già da un po’ di tempo, l’unico albero che c’era, un arancio di Sicilia. Gelido quel dicembre del 1929. Il sole, ormai basso sui campi, scaldava sempre meno il pomeriggio inoltrato. L’uomo tolse la giubba, si accostò all’arancio e fece il gesto di coprirlo. Sentiva i morsi del freddo sulle braccia, dove il gilet lasciava scoperte le maniche di una camicia lisa e sporca, ma non se ne curò. L’albero era lì, e tanto bastava. Gli pareva quasi un miracolo, ripensando alle tribolazioni patite, prima di avere la certezza che avrebbe attecchito, che non sarebbe morto. A Tatti avevano finito per considerarlo matto. Gli pareva di udire, talvolta, i discorsi della gente. “Poveretto, gli ha dato di balta il cervello…” Perfino sua moglie e i due figli scuotevano la testa, a vederlo preso da quella pianta. Che ne sapevano di lui, che andava pei campi dall’età di dieci anni a zappare dalla mattina alla sera e diventar matto dietro alle bestie. Ritrasse la giubba con stizza, e se la infilò di nuovo, colto da brividi improvvisi.

- Oramai sei sano e forte - disse all’albero. - Non c’è più freddo che ti possa dar noia.-

Si sentiva soddisfatto, sì, però smarrito, ora che l’arancio non aveva più bisogno di lui per sopravvivere. La moglie, apparsa sull’uscio di casa avvolta in uno scialle di lana nero e sbrindellato, lo scosse dai pensieri.

- Armando vieni dentro - disse. - Questo freddo non ti fa bene.- 

- Ora vengo Anna. Un altro minuto.-

Una donna forte, e l’ammirava per questo. Quella mattina di tre anni fa, quando sconvolto dal dolore e dalla disperazione s’era deciso a scavare la buca, lo aveva guardato senza capire. Ma lui aveva continuato ad affondare la zappa nella terra secca, un colpo dietro l’altro, il sole di settembre che s’arrampicava in cielo. “Che fai Armando?” aveva chiesto. “Niente, niente.” Lei s’era adattata, ed anche i ragazzi: Tonio il maggiore, e Bino il mezzano. Poco a poco aveva lasciato loro il peso del podere, per dedicarsi anima e corpo a quel piccolo arbusto, piantato quell’estate del 1926, e subito pronosticato morituro. Sentì una fitta al cuore. Aveva calato la pianta nella buca con grande cura, attento perfino che non strusciasse le piccole radici nella terra. Poi l’aveva concimata e coperta, scaldandola con le mani per timore che una folata d’aria minasse dall’inizio il suo fragile sviluppo. Anna, Tonio e Bino lo avevano osservato a lungo, e aveva colto nei loro occhi la paura di chi teme di trovarsi davanti a un folle. E forse era così, ma non sapevano. Era un segreto fra lui e Ferrer, il piccolo. Quando, a maggio di quello stesso anno, era capitata l’occasione di lavorare in miniera a Ribolla, in casa lo avevano convinto. Un lavoro, la miniera, che assicurava il salario, mentre la campagna tirava sempre meno. Il piccolo era forte. Sedici anni, e tutte le mattine alle cinque in piedi. Per non rimanere indietro a nessuno, diceva. Per contribuire alla famiglia, come tutti voi, diceva. Ed anche laggiù, a Ribolla, c’era andato con un entusiasmo tale, che sarebbe sceso perfino nei pozzi, ma alla sua età non si poteva. Sentì le lacrime lungo le guance. Lo avevano destinato a frenare i vagoncini di carbone, nel tratto che collegava il cantiere San Feriolo al pozzo Due. Un lavoro da stare attenti, in piedi su quei trabiccoli traballanti e malsicuri, che il ragazzo aveva affrontato senza battere ciglio. E il quarto giorno… Si avvicinò all’albero e lo toccò in un punto, dove spiccava chiaro l’orlo rotondeggiante di una incisione. Era stato l’anno dopo, a dicembre, un inverno che a Tatti non si vedeva da un pezzo, quando per timore che l’arancio bruciasse, aveva deciso di coprirlo con la paglia. Le notti gli faceva visita di continuo per controllare. Ma una notte… Aveva sentito il ramo come morto. Non avrebbe mai saputo spiegare come, ma all’improvviso era stato certo di questo. Aveva aggiunto nuova paglia, ma al mattino era stato chiaro che il ramo andava segato.

- Segato! - gridò, volgendo gli occhi al cielo.

- Per l’amor di Dio, calmati! - disse sua moglie andandogli vicino.

Si lasciò abbracciare e scuotere, senza reagire, guardandola senza vederla attraverso le lacrime che gli colmavano gli occhi.

Al quarto giorno di lavoro, appena saputo che a Ferrer era rimasta la gamba sotto a un vagoncino, era stata lei a piangere ed a lui era toccato farle coraggio. Coraggio anche a Bino e Tonio. La gamba si sarebbe salvata, aveva detto loro. Lo portano a Massa Marittima, e andrà tutto bene. Ma sapeva che non sarebbe stato così, il dottore aveva scosso la testa. A segare quel ramo, aveva provato il solito dolore di quel giorno, accanto al lettino dove Ferrer giaceva esangue. La stessa sensazione di aver perso qualcosa, che si era staccato per sempre. Sentì il freddo che lo aggrediva, entrandogli dappertutto, e si strinse ancora di più nella giubba di fustagno.

- Andiamo in casa - disse Anna. - Ti preparo qualcosa di caldo.-

- No, aspetta. Voglio restare ancora un po’.-

L’arancio ce l’aveva fatta. Erano occorsi parecchi giorni, molte cure e altrettante notti al freddo, ma l’albero, poco a poco, si era di nuovo irrobustito. Aveva cominciato ad avvertirlo, sembrava incredibile, semplicemente toccandolo. Accarezzandolo con delicatezza, e allo stesso tempo con terrore. Un terrore cupo, come quello provato all’Ospedale di Massa Marittima, quando aveva carezzato i capelli di Ferrer, riccioli e accesi come un tramonto d’estate, cercando di infondere anche a lui nuova linfa. Il bimbo era forte e solido, e poi aveva coraggio. Ma aveva perso troppo sangue ed era comparsa anche un’infezione, il secondo giorno. Anche l’albero s’era ammalato, l’anno successivo. Le prime avvisaglie le aveva avute a maggio. Le foglie si avvitavano tra loro, contorcendosi, mentre file di formiche si arrampicavano sul tronco. Un’infezione. Come quella che aveva aggredito Ferrer, pensò. Si era gettato come un pazzo sulle formiche, schiacciandole con le mani, grattandole via addirittura con le unghie, ma sapeva che non sarebbe stato quello il rimedio. Ci voleva la calce bianca, ma non si trovava. “Dove vai?” gli avevano domandato Tonio e Bino, quando aveva inforcato quel rottame di bicicletta e s’era precipitato a Ribolla.  Allo Spaccio della Montecatini aveva trovato quello che cercava, ed era tornato a Tatti che era quasi sera, affranto dal gran pedalare su per quelle curve, in salita, in quella strada sterrata e semibuia. Ad Anna, che gli era andata incontro, aveva fatto un gesto per rassicurarla che stava bene, poi era corso a preparare la calce e l’aveva spalmata, infine, sul tronco dell’arancio. Aveva cenato poco e male, quella sera. La moglie e i figli, che si guardavano in silenzio, quasi discosti, gli avevano ricordato la stessa scena a Massa Marittima. “L’infezione aumenta” aveva detto il Dottore “speriamo bene.”  Il giorno dopo, Ferrer era entrato in coma. L’arancio aveva vinto anche la malattia, invece, ed aveva superato l’estate, e poi l’autunno. L’inverno successivo, tenue dopo tanto tempo, lo aveva irrobustito, aiutandolo ad intaccare il suo terzo anno di vita. Armando si era sentito orgoglioso di questo, perché sapeva che il suo bimbo ne sarebbe stato felice.

Si sciolse dall’abbraccio della moglie, avvicinandosi all’albero.

- Vieni qui Anna - disse.

La donna lo seguì, stringendosi di più nello scialle. Dietro il cascinale sbucarono anche Tonio e Bino, con gli attrezzi in mano, e i  volti lustri e sporchi di polvere. Di certo, avevano appena governato e rimesso le bestie.

- Anche voi - disse Armando - avvicinatevi.-

Nella luce tenue del crepuscolo vide la perplessità dei loro sguardi, unita ad una certa apprensione. La stessa scena dell’Ospedale, quel 28 maggio 1926, quando si erano stretti intorno a Ferrer per fargli forza. Ma il bimbo era morto, coccolato fino all’ultimo, anche quando era evidente che non poteva più sentire nulla.

- Vedete come è bello quest’albero?- domandò Armando.

- Vedete questi piccoli frutti? - insistette.

Ma ora lo guardavano con la stessa espressione di quando aveva preso a scavare la buca, tre mesi dopo la tragedia. Non potevano capire…

- Questi aranci, non vi ricordano i riccioli di Ferrer?-

- Via babbo… - dissero i figli insieme.

Anna si coprì il volto con le mani e scoppiò in singhiozzi convulsi.

- Non fare così - le disse. E poi, rivolto a tutti: - Debbo dirvi una cosa importante.-

Prima del coma, quando erano soli, il suo bimbo aveva espresso un desiderio. “Babbo” gli aveva detto con un lumicino di voce “mi fai una promessa?” “Ma certo” lui aveva sussurrato stringendogli la mano. “Volevo far crescere nell’aia un arancio di Sicilia…” “Un arancio?” lo aveva interrotto, ma si era subito pentito. Ferrer aveva fatto cenno di sì con la testa, affaticato. Certo, non sapeva quanto sarebbe stato difficile coltivare quella pianta quassù. Un’autentica impresa, che solo l’incoscienza di un bambino poteva concepire. Lavoro assiduo dedizione e l’aiuto di Dio, ci volevano.

Adesso, davanti all’albero, abbracciò la sua famiglia.

- Vi ho lasciati a lavorare il podere da soli, in questi tre anni, - disse, - per via di una promessa fatta a Ferrer, in punto di morte.-

Gli occhi del bimbo lo avevano cercato a lungo e aveva compreso quanto fosse importante per lui. Per tre mesi si era roso, prigioniero di quella promessa. Ora, la moglie e i figli che lo fissavano, sembravano stupiti e disorientati.

- Ho esaudito il suo desiderio - riprese. - Voleva crescere l’arancio di Sicilia. E l’avrebbe fatto di sicuro…- Si fermò, cercando di controllare la voce, poi riprese in un sussurro: - Se non fosse andato in miniera.-

Per un po’, nessuno parlò. Tonio e Bino gli batterono sulle spalle, la moglie gli prese le mani. Stettero così, a guardarsi negli occhi, e nuove espressioni nacquero in quegli sguardi. 

- Siete andati avanti  anche senza di me - disse infine Armando. - Dio solo lo sa, che non era facile. Eppure, avete trovato la forza… Ma ora che ho cresciuto l’albero, tornerò nei campi. Non ho certo scordato come si manda avanti il podere. -

Imbruniva. Anna lo tirò a sé e gli abbottonò la giubba.

- Ti ho aspettato tanto - disse. Poi, rivolta ai suoi uomini, aggiunse: - Sarete stanchi. Andiamo dentro, che devo ancora preparare la cena. -

Entrarono in casa tutti insieme che era ormai buio. Solo, in mezzo all’aia, l’arancio di Sicilia affrontò la notte. Forte, gagliardo, così impertinente, che neppure quel cielo senza luna osò nascondere, alla vista di un passante occasionale, il luccichio dei suoi minuscoli frutti.

Riccioli sospesi nell’aria, appesi a fili invisibili.

 

 

F I N E