Montemassi, febbraio 2002

OSSERVAZIONI SUL PROCESSO DI VERONA
RELATIVO ALLA TRAGEDIA DEL 4 MAGGIO 1954

di Florido Rosati

 

Ho riletto, in questi giorni, un riassunto del processo avvenuto a Verona nel 1956, dove furono processati i dirigenti della miniera di Ribolla, perché presunti colpevoli della morte di 43 minatori, per un colpo di grisou e pulviscolo, che poi si risolse con «nessun colpevole».
In quelle pagine (a mio avviso) si leggono troppi «non ricordo», «non ammetto», e troppe discolpe passate di mano in mano.

Il Padroni.
Voglio provare a ripercorrere con la memoria le fasi precedenti al fatto, cercando di fare luce alla possibile verità su quella tragedia, dato che io, scrivente Rosati Florido, lavorai in quella miniera dal settembre 1936 fino al 25 aprile 1959, con la qualifica iniziale di boccaiolo (addetto agli ascensori, al carreggio), risalendo fino a minatore, armatore e disarmatore, lavorando in tutti i settori dei lavori elencati.
Nel ricordo di quei tempi e degli anni trascorsi, cercherò di dare voce alle discordanze ed ai perché della stesura di quel processo.
Nel 1952 venne a dirigere la miniera di Ribolla un ingegnere, Leonello Padroni, il quale dimostrò subito chi fosse e quale fosse il suo fine.
Trasformò da subito il sistema di coltivazione, passando a tagli discendenti con riempimento per frana, lasciando enormi vuoti sopra le teste dei minatori e delle gallerie, vuoti che si dimostravano poi enormi serbatoi di grisou.
Ma diamo uno sguardo alla vita sociale, al rapporto tra gli operai e la direzione della miniera.
Fin dall'ingresso di questa persona, da figurarsi come se un cane rabbioso lo si inserisse in un buon canile, i cani addetti a guardia furono tutti, o quasi, infettati.
Nelle riunioni che teneva al personale di vigilanza e sorveglianza, pose loro l'obbligo che ogni sorvegliante, a fine turno, doveva avere fatto almeno un biglietto di punizione a chi che sia dei suoi sorvegliati. Tanto è che, chi non si sentì di fare tanto l'aguzzino, si dimise da sorvegliante e tornò a fare il minatore.
Non ricordo il numero, quanti furono i dimissionari, ma qualche nome a ricordo di tutti lo porto a memoria: Ivan Gentili, Turchi Primo, Prati Armelindo di Tatti, Magnanelli Savino di Roccatederighi, che poi morì nello scoppio, Rosati Oleno di Montemassi, e così via.
Quelli che restarono all'ordine della direzione, e da tale malattia contaminati, operarono in nome ed in virtù degli ordini ricevuti.

Le lotte.
Fin da allora si scatenò un finimondo di lotte sindacali, scioperi spontanei, ribellioni di ogni genere. Il primo atto della direzione fu il licenziamento degli invalidi civili e di lavoro.
Poi le rappresaglie politiche, con licenziamento di politici e sindacalisti più impegnati.
A questo punto le lotte si estesero alle miniere di tutto il comprensorio; furono lunghi e duri gli scontri con la polizia chiamata a sostegno della direzione, ci furono pestaggi e arresti, le lotte continuarono in difesa dei diritti acquisiti e del posto di lavoro.
Un giorno noi minatori ci trovammo, vestiti con i panni del lavoro, tutti in città a Grosseto e per quel giorno padroni indiscussi. La morsa ebbe un rallentamento, ma riprese in maniera paternalistica con premi consensuali fino a 60.000 lire a chi lasciava il posto.

Poi si scatenò una marea di prezzolati al soldo della società Montecatini, che giravano di casa in casa a convincere le famiglie dei minatori a lasciare il posto di lavoro o passare al crumiraggio.
Rallentò la lotta.
Nel frattempo si erano schierate con i minatori tutte le categorie.
Avevano aperto libretti di credito alla coop, gli esercenti, gli artigiani e anche con la loro partecipazione alle lotte attive. Ma la direzione della miniera, con i suoi segugi al massimo dell'idrofobia, e sostenuta dal distretto provinciale, andò avanti così.

Il 1° maggio del 1954, a sostegno della direzione, venne e scese in miniera un reporter del giornale «Il Mattino». Il 2 maggio, al rientro in miniera, con la lampada ci fu consegnata una copia di quel giornale, nel quale era scritto «nella miniera di Ribolla manca solo la televisione».
La mattina del 4 maggio, stesso mese, stesso anno, due giorni dopo quelle affermazioni, uno scoppio di grisou uccise ben 43 minatori.

Il pulviscolo.
Da qui alle fasi del processo di Verona.
E lì, a mio avviso, mancò la verità, la giustizia.
Uno dei punti discussi del processo: c'era in miniera il pulviscolo? Polvere di carbone da creare anch'essa miscela esplosiva?
Anche qui cercherò di chiarire che cosa era successo a monte del fatto.
Tra le innovazioni portate da Padroni: tavole oscillanti ad aria compressa che facevano scendere il carbone dai tagli e dai piani inclinati; nelle tubazioni che da sempre portavano l'acqua fu fatto scorrere il fango (detto boiacca) che serviva a compattare i franamenti provocati per riempire i vuoti creati dallo scarbonamento, e a spegnere gli incendi che si sviluppavano per autocombustione in molte parti della miniera.
Altra innovazione: l'abbattaggio a rapina. Tutto a fondo cieco. Da qui la necessità che tutte le compagnie fossero alimentate di aria con aerazione sussidiaria. Dalle gallerie di base e di scorrimento i ventilatori, attraverso tubi di lamiera di 30 centimetri di diametro, spingevano l'aria nei tagli dove i minatori escavavano il carbone, in alcuni casi anche 100 metri di tubazione.Data la distanza e lo sfregare dell'aria nei tubi, essa arrivava secca ed irrespirabile.

L’acqua.
Altra trovata: tornò l'acqua in miniera con tubi molto più piccoli dei precedenti; camminavano insieme a quelli dell'aria da respirare, giunti all'ultimo tubo erano collegati ad un (chiamato) iniettore. Con la pressione polverizzava l'acqua che, mista all'aria, finiva nelle cervicali degli addetti all'escavazione.
Se avessimo voluto adoperare l'acqua per bagnare la discarica del carbone (dopo le mine), occorrevano chiavi per staccare l'iniettore ed attaccare il flessibile. Finito di bagnare avremmo dovuto ripetere la manovra al contrario, ma anche qui c'era il problema del secondo e terzo turno, perché non c'era il meccanico di supporto.

Il direttore, per sopperire a tale carenza, aveva dotato i suoi sorveglianti di una cassetta appositamente costruita in lamiera, con dentro tutte le chiavi meccaniche per le varie necessità; il peso della cassetta era (mi pare) di sette/otto chilogrammi. Dopo aver accettato l'incarico, il malcapitato, doveva portarla sempre con sé.
Il sorvegliante era a disposizione di un intero cantiere, non di una sola compagnia.
La compagnia che ne aveva necessità, dopo brillate le mine, per cercare il sorvegliante, fare le manovre prima descritte passava l'ora, e, se a fine turno non erano arrivati i carrelli del carbone ai pozzi di estrazione, scattava quel provvedimento del quale parlavo prima: un biglietto di punizione per turno, questa volta sarebbe stato scarso rendimento, uno dei più temuti.
Così, noi minatori, costretti dal pezzo del pane, buttavamo nelle tavole oscillanti, nei fornelli, nei carrelli, tanto carbone ma anche enormi quantità di polvere che il circolo dell'aria trasportava.

Ora chiedono al processo di Verona: ma c'era il pulviscolo in miniera?
Lungo il tratto dove avveniva il movimento e il carico del carbone, lo spessore della polvere era tale da non riconoscere le giunzioni dei tubi delle rotaie e delle tavole che guarnivano le botole.
Di quanto scritto me ne possono fare testimonianza i pochi minatori ancora in vita a Ribolla e nei paesi, che in questa miniera lavoravano.

Il maialino d’india.
Due nemici dei minatori: la mancanza di ossigeno e l'anidride carbonica.
In barba alla tecnologia, la direzione della miniera dotò le compagnie più a rischio, come strumento di misura, di un maialino d'india (cosa da ridere se non fosse estremamente seria).
A dire della direzione, il maialino appeso ad un asse della galleria in una gabbia, rosicchiava croste di pane e bucce di frutta. I minatori, intrisi di sudore, impastati di fango, troncati dal lavoro, dovevano aspettare che il maialino morisse (perché più sensibile) prima di proteggere il proprio fisico.
Da tenere presente che, caso volesse, la morte del maialino veniva addebitata ai minatori con le sanzioni come prima scritte.
Di questo al processo fu materia di scontro, perché già prima della tragedia era stato pubblicato sui giornali da Otello Tacconi, segretario della commissione interna. Non mi dilungo nei dettagli in quanto anche il caro Otello, grande difensore dei nostri diritti, è mancato da tempo.

Il maresciallo.
L'indagine qui, sul luogo, all'epoca dei fatti fu condotta da un maresciallo dei carabinieri che, poveraccio, sarà stato pure un buon poliziotto, ma sicuramente non preparato a competere con necessità ed esigenze di una miniera.
Queste deposizioni così fatte, prive di senso, furono portate al processo.
Quelli che fummo chiamati a testimoniare a Verona, e fummo tanti in comparsa, non ci fu concesso, alla luce dei fatti, di aggiungere quello che sapevamo e avremmo detto; solo confermare le deposizioni fatte a richiesta di quel povero maresciallo.

La posta in gioco.
Nel tempo che intercorse tra la strage e il processo, la Società non badò a spese. Suo intento: sviare la verità. Così prese a suo uso una serie di persone capaci in dialettica e le mise a perseguitare, in maniera paternalistica, tutti i familiari dei morti che, con la guida dei sindacati, si erano costituiti parte civile.
Di volta in volta. Di caso in caso. Aumentavano la posta in soldi purché ritirassero la loro partecipazione al processo fino a quando al processo stesso si presentarono solo sei famiglie (Vannini, Magnanelli, Baldanzi,...)
Queste furono liquidate in transazione con i sindacati; ebbero una liquidazione rispetto ai primi da uno a quindici milioni, e forse anche più.
Questo per la Società fu un enorme deterrente per avere ragione sui torti.

Il Marcon.
È riportata, sulle pagine di quel verbale, la sensibilità dei tecnici della miniera verso le maestranze, in particolare di un geometra o perito minerario al quale si dà anche il titolo di ingegnere.
Mi si fa obbligo, in nome della verità e dei ricordi, richiamare quel nome: Marcon.
Ce ne furono di tecnici arroganti e mancanti di umano rispetto per gli operai, ma certo il Marcon non fu tra i migliori. Mi permetto di scrivere un aneddoto (mi pare si dica così): due operai che lavoravano in una galleria di base dove c'era l'acqua andarono in quell'ufficio a chiedere il compenso per lavoro disagiato, in quel caso «acqua al piede».
Stava piovendo fuori ed il tanto umano Marcon disse loro: «andate fuori, così la prendete al piede e al capo!».
I due, purtroppo ora morti, erano Franchi Giuseppe e Cicalini Frauville (lille), due operai onesti e sicuramente non meritevoli di tali apprezzamenti.
Potrei avere decine di testimonianze negative in cui il Marcon si distinse.

La politica del carciofo.
Composto questa memoria a mo' di scheda dei nostri dirigenti, l'esito del processo l'ho già detto: «Tutti assolti, non esiste il fatto».
Il lavoro in miniera continua con le maestranze rimaste. La Società va avanti con la politica del carciofo: poche foglie alla volta per poi buttare al macero anche il torso.
E questo è quello che avvenne.
È inutile dire che noi minatori eravamo tutti schedati, la maggior parte aveva fatto o subito la guerra. Moltissimi erano stati in formazioni partigiane o collaborato con esse.
La commissione che di volta in volta sceglieva chi licenziare teneva conto del rendimento, della cultura, della politica e della giustizia.
Della suddetta commissione, per tutto quel periodo e per sua richiesta, fece parte il prete di fabbrica.

Al processo di Verona...

Giuro al lettore che giustizia non ci fu.
Vi fu invece abuso di potere, arroganza padronale, rabbioso attacco politico.
Tengo a rimarcare questo con estrema chiarezza a tutti coloro che avevano il marchio di comunista, partigiano, collaboratore per la resistenza al fascismo.

La lettera di licenziamento ci fu recapitata la mattina del 25 aprile 1959.
Per chi ha il senso della parola «umanità», due cose tengo ad affermare:

La guerra è l'ultima pazzia,
la miniera l'ultimo pane.

Florido Rosati

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