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Un cunicolo lungo trenta metri. ... Per rompere l'assedio della Polizia ...

Le lotte sindacali.


N
essuna legge e nessun sindacato proteggeva agli inizi i minatori della Maremma.
A Ribolla i turni erano di dieci ore ciascuno; alle ore di lavoro dovevano aggiungersi quelle per raggiungere la miniera e per tornare a casa, a piedi naturalmente..
L'assistenza sanitaria era quasi inesistente, gli infortunati, gli invalidi per lavoro venivano ripagati con poche lire, la malattia significava perdita di quasi tutto il salario.
Nei casi di infortunio mortale veniva fatta una colletta tra i minatori per la famiglia che rimaneva senza sostentamento.

Le prime agitazioni e i primi scioperi avvennero nell'ultimo decennio del secolo, prima ancora che cominciasse l'organizzazione sindacale tra i minatori.
Nel 1900 Ribolla godeva la fama di essere la più malsana e disagevole delle miniere maremmane: sorgeva in una zona malarica, i pozzi avevano raggiunto i 140 metri di profondità ma le gallerie non erano ventilate e stillavano acqua da ogni parte, gli incendi e le esalazioni velenose erano all'ordine del giorno.
Il 2 giugno 1900 uno scoppio di grisou causò la morte di un operaio e il ferimento di un altro.
Gli operai attribuirono l'infortunio al fatto che durante quattro ore la miniera veniva abbandonata (a causa dei due turni di dieci ore) e scesero compattamente in sciopero chiedendo turni di otto ore.
Dopo dieci giorni di sciopero i minatori ottennero le otto ore di lavoro, l' impegno da parte del direttore di aumentare i guadagni degli operai malamente retribuiti, l'impegno da parte della direzione di mettere una pietra sopra l'accaduto e di non compiere vendette sugli organizzatori dello sciopero.
Ma i patti non furono rispettati dalla direzione che sospese alcuni minatori che avevano avuto parte attiva nelle dimostrazioni.
Così il 30 giugno la maestranza entra nuovamente in sciopero chiedendo la riassunzione di nove compagni licenziati per rappresaglia e il riposo domenicale durante l'estate.
Lo sciopero durò fino al 16 luglio e terminò con la sconfitta degli operai: davanti alla minaccia della Società di chiudere la miniera, dovettero piegarsi e tornare al lavoro: gli espulsi non furono riassunti, il riposo estivo domenicale fu negato.
La polemica fu conclusa dall'On. Luzzatto: dichiarò che l'incidente del 2 giugno fu dovuto all'imprudenza di un operaio (dato che nel punto dell'esplosione furono rinvenuti dei fiammiferi e una pipa) e che se gli operai consideravano pericolosa un'interruzione di quattro ore, a maggior ragione era assurdo chiedere il riposo domenicale di ventiquattro.

Le prime Leghe di resistenza tra minatori sorsero nel 1901 ma la loro debolezza era nel fatto che erano costituite non per miniera ma per paese. Fu costituita, dopo due anni, una "Federazione nazionale tra i lavoratori delle miniere e affini" che però ebbe vita breve e stentata: troppo distanti fra loro erano i bacini minerari perché si potesse pensare ad un'azione coordinata da un unico organismo centrale.
Intorno al 1910 fu il Partito socialista a farsi promotore dell'organizzazione della categoria attraverso il suo settimanale da poco fondato: "Il Risveglio".
Intanto a Ribolla i ricorrenti fuochi e le tante frane minacciavano di far chiudere la miniera; Il Risveglio parlò di "delitti moderni", di una morte che sembrava bussare da ogni lato e auspicò la chiusura della miniera... Singolare richiesta, in bocca a dei sindacalisti, la soppressione di una fonte di lavoro.
Nell'attesa di leggi adeguate alla disciplina del lavoro in miniera, le condizioni degli operai diventarono sempre più precarie, fra il timore del licenziamento che raggelava tanti spiriti e lo sforzo quotidiano di sopravvivere per otto ore ai pericoli sempre più incombenti.
Gli scioperi e le agitazioni si susseguirono nel corso degli anni in quasi tutte le miniere della Maremma, quasi sempre a seguito, purtroppo, di incidenti spesso mortali e infortuni.
Il primo ottobre 1914 la consegna dei fogli paga a Ribolla suscitò una indignazione generale: il 6 iniziò lo sciopero dei 700 operai che chiedevano la variazione delle tariffe di cottimo in misura tale da garantire ai minatori un guadagno minimo di 4 lire al giorno.
Ma i dirigenti della miniera sostenevano che il carbone escavato a Ribolla costava alla Società un prezzo troppo alto e che quindi era impossibile aumentare le paghe; in effetti nella miniera c'erano di continuo incendi e frane. Così venivano persi interi banchi di carbone, le gallerie troncate rimanevano impraticabili per l'insufficiente rifornimento di legname per le armature.
Un sistema vecchio di coltivazione della miniera.
La Società respinse le richieste degli aumenti ma accettò di cambiare il sistema di coltivazione.

C on la grande guerra ogni iniziativa sindacale fu bloccata; non mancarono agitazioni dovute al continuo aumento del costo della vita ma la militarizzazione delle maestranze permise alla Società di tenere a freno gli operai.
Il dopoguerra fu un periodo agitato e confuso: caroviveri e disoccupazione furono la prima causa del fenomeno sociale. Nel 1919 a Follonica si riunì un convegno di minatori grossetani, senesi e dello spoletino.
In questo convegno si auspicò di creare un organismo nazionale dei minatori e vennero formulate molte richieste agli industriali: riconoscimento della federazione, commissioni paritetiche per dirimere i conflitti di lavoro, una Cassa per le malattie professionali, farmaci e infermerie in ogni miniera, un'indennità di chilometraggio o il trasporto gratuito degli operai, 7 ore di lavoro per gli interni e 8 per gli esterni.
Le richieste economiche furono in gran parte accolte ma fu negato il riconoscimento della Federazione; ci fu così uno sciopero ad oltranza nel grossetano, nel senese e nello spoletino che durò, in certe miniere, 135 giorni.
Le Società iniziarono a capitolare: dopo la Montecatini fu la volta della Marchi, della Siele, dell'Amiata.
Era stato il più lungo sciopero dei minatori della Maremma e si era concluso con pieno successo: tutte le richieste erano state accolte eccetto il trasporto gratuito.

Anche gli impiegati e i tecnici si andavano organizzando sindacalmente contro le Società; agitazioni e scioperi si susseguirono nel corso degli anni, in continuazione si avanzavano richieste alle Società e, al primo rifiuto, si proclamava lo sciopero.
Ma erano azioni slegate, frammentarie.
Proprio mentre l'esaltazione rivoluzionaria sembrava toccare il colmo, il terrore fascista si abbatté sulla Maremma e fu lo sfacelo completo del movimento operaio.

L a liberazione diede ai minatori della Maremma ciò che era stato perduto venti anni prima: la libertà sindacale.
L'organizzazione sindacale rinacque pressappoco nelle antiche forme. Il primo compito da affrontare era quello della ricostruzione; l'occupazione tedesca e il passaggio della guerra avevano danneggiato seriamente gli impianti, la forzata interruzione della manutenzione aveva provocato allagamenti anche gravi.
La produzione era scesa a zero.
I lavoratori si misero all'opera per riattivare le miniere; i salari furono rivalutati, furono aggiunte le indennità di chilometraggio, di sottosuolo, di temperatura, di stillicidio, di mensa, di fornitura di indumenti per i lavoratori disagiati.
Un clima di comprensione e di collaborazione contrassegnava i rapporti fra dirigenti e operai: molti degli stessi dirigenti, del resto, per convinzione o per opportunismo si erano iscritti a partiti di sinistra.
Analogo clima di fiducia e di comprensione caratterizzò la vita della Federazione Minatori nei primi anni.
La mancanza di combustibile nell'immediato dopoguerra aveva spinto a potenziare al massimo la miniera ma l'arrivo sui mercati di grandi quantitativi di carbone estero, specialmente americano, cambiò radicalmente la situazione. La lignite di Ribolla non era in grado di sostenere la concorrenza dei carboni stranieri: valeva meno e costava di più.
Alla fine del 1947 la Montecatini propose il licenziamento di 1.300 operai; dopo una serie di riunioni con gli organi sindacali gli operai licenziati furono 600.
C'era la necessità di trovare accorgimenti per eliminare sprechi di tempo e di materiale.

L a maggiore agitazione del dopoguerra si ebbe nel 1951 nelle miniere del gruppo Montecatini con la cosiddetta "lotta dei cinque mesi".
La genesi di questa lotta è legata al meccanismo di retribuzione dei cottimi.
I cottimi esistevano solo per alcune categorie di operai ed erano regolati da un accordo che fissava un minimo di produzione, detto "produzione ad economia", che doveva essere superato per poter avere l'incentivo.
Se la compagnia, nel corso del turno, estraeva un quantitativo di minerale inferiore all'economia veniva multata; a lungo andare il rimanere al di sotto dell'economia poteva portare all'accusa di scarso rendimento ed essere motivo di licenziamento.
Il sistema del cottimo era già stato più volte criticato dai sindacati e alla fine del 1950 la Federazione Minatori decise un'agitazione per chiederne l'abolizione; il cottimo individuale, secondo la Federazione, spingeva gli operai al limite delle umane possibilità e non solo era debilitante per l'organismo ma portava anche a trascurare le precauzioni.
Inoltre si creavano disparità di guadagno tra i cottimisti che spesso non dipendevano dalla buona volontà del lavoratore ma dalle condizioni tecniche del lavoro; per la Società, invece, il cottimo significava realizzare uno scandaloso superprofitto dato che la retribuzione di esso era di circa un terzo del lavoro ad economia.
È contro questo supersfruttamento che venne imposta l'agitazione dei cinque mesi: si chiese di sostituire al cottimo individuale un cottimo collettivo, si denunciò la politica di sfruttamento della Montecatini che dal '48 al '50 aveva aumentato la produzione del 28% riducendo la manodopera del 10%.
Questa era una dimostrazione lampante dello sfruttamento dei lavoratori.
La lotta assunse la forma della "non collaborazione": la produzione fu ridotta ai minimi di economia con le conseguenti decurtazioni sul salario.
I risultati ottenuti furono, in pratica, irrisori; la Montecatini non accettò il cottimo collettivo e i lavoratori tornarono alle miniere con malcontento.
CISL e UIL attaccarono con violenza la CGIL: "Voi minatori siete stati trascinati in una lotta avventata. Longo dice che dovete essere portati come esempio all'intera classe operaia italiana; ma l'elogio di Longo vi compensa delle decine di migliaia di lire perdute in questi mesi?" Tuttavia la lotta dei cinque mesi contribuì a creare una coscienza sindacale e politica più matura.

L'OFFENSIVA PADRONALE


R ibolla era un paese squallido, senza un vero e proprio tracciato urbano, case grigie e poco accoglienti, anche quelle degli impiegati e del direttore.
Sparso qua e là il materiale di miniera, travi, legnami; i castelli dei pozzi sorgevano a poca distanza dall'abitato.
Ma ancora più pesante era l'atmosfera di tensione che vi regnava. Le strade polverose erano pattugliate da coppie di carabinieri con i mitra imbracciati, davanti al magazzino delle lampade un altoparlante avvertiva via via gli operai dei pericoli della miniera, leggeva le multe e le punizioni.
L'offensiva padronale era iniziata alla fine del 1951 quando la Montecatini aveva inviato a Ribolla il dott. Riccardi come segretario e l'ing. Padroni come direttore della miniera.
Ufficialmente il Riccardi aveva compiti "assistenziali": in realtà erano compiti politici. Usava la retorica paternalistica e il pugno di ferro.
Nel '53 un licenziamento di 45 operai provocò una vasta agitazione: un gruppo di operai si calò nei pozzi, occupandoli.
Il Riccardi chiese l'intervento della forza pubblica e fece arrestare gli operai con l'accusa di violazione di domicilio; volle che gli operai uscissero dai pozzi ammanettati, per dare l'esempio.
Il primo obiettivo della Montecatini fu quello di separare in modo rigido il ceto dei dirigenti e degli impiegati dalla massa operaia, e in questo il Riccardi ebbe successo... i pochi irriducibili vennero licenziati, gli altri piegarono il capo.
Rimaneva ora da "domare" gli operai.
Ribolla era considerata il centro più "rosso" e quindi meritava un vero duro: l'ing. Padroni. Appena preso possesso della sua carica si premurò di far sapere che era venuto in Maremma "a mettere a posto gli operai".
La sua venuta seguiva a un periodo di grosse ed importanti agitazioni sindacali e Padroni fu la risposta forte della Società. L'uomo energico e deciso mandato per risolvere definitivamente una situazione economicamente e politicamente pericolosa. Suo compito preciso era di chiudere nel minor tempo possibile la miniera di lignite di Ribolla attuando una gestione aziendale che contemporaneamente permettesse la realizzazione di un profitto maggiore che nel passato.
Con gli scioperi del primo semestre del 1952, Padrini rivelò a pieno i suoi intenti ed iniziarono le rappresaglie contro gli operai.
Punizioni, ritorsioni. Gli scioperanti dovevano pagare alla Società il pasto consumato nel refettorio; tanti operai furono puniti con giorni di sospensione dal lavoro per motivi chiaramente politici.
Ci furono 57 licenziamenti di rappresaglia con motivazioni fallaci: insubordinazione ai superiori, diffamazione della Società.
C'è chi è stato licenziato per aver parlato, in assemblea, dell'azione della Celere o semplicemente per aver parlato ai compagni di lavoro all'interno della miniera, per aver preso la parola in un'assemblea (fra l'altro autorizzata dalla direzione).
Otello Tacconi, Mendes Masotti, Lamberto Fierli, Armelindo Prati e molti altri persero il lavoro.
Largamente usata era anche l'arma del trasferimento da un cantiere all'altro e da una miniera all'altra. Agli attivisti politici e sindacali erano riservati i lavori peggiori oppure erano confinati tutti nello stesso cantiere, per isolarli dal resto della maestranza.
Erano all'ordine del giorno i declassamenti per futili motivi o la negazione delle promozioni.
La Montecatini favoriva, per contro, gli operai remissivi con premi antisciopero, lavori migliori, gite turistiche, concessione di case.
Le assunzioni venivano fatte in modo discriminato, non tenendo conto delle norme sul collocamento. Al momento dell'assunzione gli operai dovevano firmare una dichiarazione con la quale si impegnavano a non aderire agli scioperi.
Ma i più gravi abusi riguardano la limitazione dei poteri del segretario della Commissione Interna (organismo di rappresentanza operaia in fabbrica), di fatto inchiodato dietro alla scrivania: non poteva allontanarsi dall'ufficio o circolare per la miniera senza un'autorizzazione della direzione. Gli operai, per conferire con lui, dovevano analogamente avere l'autorizzazione.
Isolato dagli operai non poteva intervenire in materia di punizioni e multe, anche se questo suo diritto era decretato dall'accordo interconfederale del '53.
Vennero vietate le riunioni, l'affissione di manifesti, l'introduzione di volantini o giornali in miniera; venne vietato l'ingresso in miniera ai dirigenti della CGIL, mentre lo si concedeva largamente a quelli della CISL e della UIL.
Ogni astuzia fu messa in opera per impedire agli operai di ritrovarsi insieme. Le ditte che gestivano i trasporti degli operai furono severamente diffidate da rispettare la puntualità nelle partenze. Questo per impedire che operai che abitavano in paesi diversi potessero riunirsi dopo il lavoro.
Alle guardie venne affidato un compito di vero spionaggio politico, sul lavoro e fuori del lavoro.
Ogni segretario della Commissione Interna aveva alle calcagna una guardia che lo seguiva come un angelo custode.
In questo clima fu accentuato il supersfruttamento: la misura del cottimo non venne più discussa ma imposta. In qualche miniera furono introdotti vagoncini più capienti lasciando inalterata la retribuzione.

L 'arrivo di Padroni segnò anche l'introduzioni di nuovi sistemi di lavorazione all'interno della miniera, sistemi che suscitarono reazioni negative e preoccupate fra i minatori e fra i loro rappresentanti.
Il metodo di coltivazione comunemente usato era quello a "ripiena" che consisteva nell'abbattere il banco lignitifero riempiendo poi i vuoti che si venivano a creare con l'estrazione del minerale, con terra portata dall'esterno o proveniente da tracciamenti in sterile a tetto.
Tale lavorazione era stata imposta a seguito di un verbale del 1933 dell'ing. Gabella che la riteneva tecnicamente la più adatta prevenire il pericolo di auto - combustione.
Padroni ottenne dal distretto minerario di Grosseto l'autorizzazione a introdurre in via sperimentale un nuovo sistema, quello per "franamento" del tetto.
Con questo sistema le gallerie scavate erano a fondo cieco ed armate via via con quadri che avevano le gambe in legno ed il cappello in ferro; si procedeva così all'estrazione della lignite.
Terminato il banco si stendeva sul piano una rete metallica, tenuta stesa da legni inchiodati; il tutto veniva ricoperto con uno strato di terra battuta e bagnata alto circa 20 cm (prima misura protettiva contro gli eventuali incendi provocati dalla frana).
Infine si provocava il franamento del tetto disarmando la galleria a fondo cieco con mezzi meccanici.
Questo sistema faceva risparmiare tempo, uomini e materiali...alla Montecatini.
Fu un metodo denunciato dal sindacato minatori CGIL per deficienza di ventilazione, formazione di notevoli quantità di pulviscolo di carbone, risentimenti generali nella struttura della miniera, formazione di grandi quantità di grisou nei fondi ciechi, aumentato pericolo di incendi.
Con questo nuovo metodo la produzione, effettivamente, aumentò...
ma ogni minatore sapeva che la miniera di carbone "non vuole vuoti".

 

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Liberamente tratto dai libri:
Bianciardi - Cassola: "I minatori della Maremma" ed.Hestia
Palazzesi: "Storia di in villaggio minerario" edizioni Il Leccio.