Tratto dal libro: Al Come una preda braccata
di Laura Maggi -Stampato nel mese di Maggio 2004-
ExCogita Editore
4 maggio 1954
Luigi è pronto, si avvia verso la bocca del pozzo, assieme agli altri del turno delle sette. Con sé ha il tascapane con il pranzo, un cambio di abiti, la lampada. Lasciano la tenue luce dell’alba oscurata da nuvoloni grigi che minacciano pioggia e scendono nella galleria principale. Ognuno segue il proprio percorso; a ogni diramazione tre o quattro operai si staccano dal gruppo e si incamminano verso il proprio cantiere. Il caldo umido rende difficile respirare e parlare; quelle pareti nere sono opprimenti, l’odore acre del carbone, misto a ciò che sembra muffa, putrido, dà un’impressione di soffocamento. Bisogna non pensare per rimanere qui. Tutti i sensi si affinano, corpo e mente sono attenti solo a percepire un rumore, qualcosa di inconsueto che possa avvisare di un pericolo. L’impressione di solitudine diventa desolante: soli, perché capaci unicamente di sopravvivere per quelle otto ore nelle quali tutto il resto diventa poco importante.
Luigi lavora alla 14, l’ultima galleria della zona del Camorra, e deve percorrere più di trecento metri di cunicoli prima di iniziare a scavare carbone. Con il Catenacci, Mario Sbrana, il Mulinacci, oltrepassano la galleria diretta; c’è un fumo basso e denso. “Il demonio è tornato a respirarci addosso!”, dice il Catenacci. “Hanno tolto il tappo alla 31?” Chiede Luigi. “Non importa alla direzione se il carbone brucia a fuoco morto, tanto siamo noi a rischiare la pelle!”. La sua rabbia sorprende gli altri; lo prendono in giro, gli dicono che anche lui sta diventando uno di loro. Arrivano al loro cantiere e si cambiano gli abiti. Oggi è il trentaquattresimo compleanno di Mario e vorrebbe essere lassù, alla luce del sole, a festeggiare in famiglia: “Invece sono quaggiù con voi a faticare. Che bella festa mi attende!”.
Con le lampade in mano entrano in un basso cunicolo per capire dove fissare i legni dell’armatura; il giorno prima una frana ha fatto venire giù il tetto. Lavorano in ginocchio, perché non c’è spazio a sufficienza. Improvvisamente sentono uno schianto che li fa sobbalzare e subito dopo un boato cupo, profondo, si sentono trascinare dall’aria che sembra andarsene, come risucchiata; per lunghi secondi non ci sono più suoni, tutto appare attutito. È faticoso respirare, come se sul petto ci fosse un macigno, si rendono conto di essere stati scaraventati a terra e si tirano su, storditi, barcollanti. Quel silenzio li spaventa, è irreale; nessuno ha la forza di parlare, si guardano come per cercare delle risposte, poi sentono frusciare nelle pareti della galleria: sta tornando l’aria. Una nuvola nera li avviluppa, non riescono più a vedere niente; fumo e polvere bruciano in gola, negli occhi.
“Via, via” grida Mario, “ma cerchiamo di stare calmi… siamo ancora vivi…”.
“Sì, calmi, andiamo verso il pozzo 10, mi sembra che venga un po’ d’aria da quella parte”.
Con una mano seguono il contorno della galleria: così si muovono lentamente, inciampando sui propri passi; Luigi ha le gambe intormentite, un formicolio in tutto il corpo, come se il sangue avesse ripreso d’improvviso a circolare. Non si domandano cosa sia accaduto, l’importante ora è solo raggiungere una gabbia per risalire; arrivano tentoni all’inizio della rimonta, cercano di raggiungere il fornello che dà nella galleria di base, ma il fumo diventa sempre più compatto. Si premono sulla bocca e sul naso il fazzoletto, la polvere toglie il fiato. Si sentono tossire, sono ancora tutti, per ora.Tornano indietro, verso la 15. Non c’è modo di passare nemmeno da qui, i colpi di tosse sono rotti da imprecazioni: “Calma, calma… proviamo dall’intermedia, verso la 18”. Manca il tempo per pensare, il Mulinacci si incammina e gli altri lo seguono; Luigi non conosce bene la miniera, ma in qualche modo sente che quella è la loro sola possibilità di salvezza. Il cuore gli batte forte nel petto, rimbomba nelle orecchie, gli abiti intrisi di sudore gli si incollano addosso… sente di essere ancora vivo, ma devono trovare un modo per risalire.
Giovanna è in casa. Ha sentito il boato e la terra tremare; per un attimo interminabile ha cercato conforto nel ricordo della mattina di Santa Barbara, ma oggi è il 4 maggio e non ci sono ricorrenze... Apre la finestra, guarda fuori: sono tutti immobilizzati, fermi come statue. Poi qualcuno reagisce, accetta il terrore e urla: "Il gas, il gas!". È un risveglio collettivo, iniziano a correre, a chiedere: "Da dove veniva il rumore? L'hai sentito?"
"Sì, dal Raffo... da laggiù". Un pennacchio di fumo sale alto proprio nella direzione in cui tutti guardano. Giovanna sveglia la bambina, la prende in braccio ed esce nella piazzetta, unendosi alla folla che si sta ammassando; c'è incredulità, disperazione, ormai tutto il paese è in strada e cerca risposte. Alcuni uomini hanno inforcato le biciclette e si sono precipitati verso la zona sud; tante donne hanno le mani sul petto, c'è chi piange, c'è chi consola, chi è immobile con lo sguardo perso nel vuoto. Sono improvvisamente spalancate le porte dell'infermeria. Ogni minatore, ogni moglie conosce il significato di quelle porte aperte: solo sciagura. Giovanna si guarda intorno e non riesce a rendersi conto, rifiuta di accettare che il suo Luigi sia stato sorpreso dal grisou, che sia... morto. Corre verso un uomo in bicicletta che sta tornando: è sudato, sconvolto. I suoi occhi sono quelli di una persona terrorizzata e arrabbiata insieme. Urla: "Chiamate tutti quelli che sono disponibili, dobbiamo andare laggiù... il gas!... sono tutti dentro, nel Camorra, nel Raffo... andate, avvertiteli. Dobbiamo tirarli fuori!".
Tanti si avviano, quasi di corsa, verso la zona sud della miniera e Giovanna segue la folla, come ipnotizzata, soffocata dalle emozioni. La bimba in braccio, il pianto serrato in gola, un solo pensiero: "Luigi...".
Luigi sente arrivare altri compagni, vengono dalla 18. “Da qui non si passa, dobbiamo tornare indietro” grida uno di loro “…verso il calo della 15. Non ci sono altre possibilità…”.
“Sì, sì” dice Mario, “poi scendiamo nella galleria di base e andiamo al pozzo 10…”.
Si avviano, uno dietro l’altro. Arrivati al calo l’aria è un po’ più fresca e prendono coraggio. La galleria è semi-distrutta: le armature sono cadute, i carrelli sono stati spazzati via dai binari, la terra franata rende difficile camminare. Fatti pochi metri il primo della fila inciampa in qualcosa, si china e tocca un corpo: “C’è un ferito, presto, aiutatemi!” . Mario si avvicina, vuole girarlo per vedere come sta, ma sente qualcosa di caldo inondargli le dita. La testa dell’uomo è fracassata, il volto quasi irriconoscibile. Rimane lì a guardare le sue mani illuminate dalla lampada e ciò che resta di quel viso, è una fortuna che il fumo gli impedisca di vedere i particolari. Luigi lo solleva: “Andiamo, per lui non c’è molto da fare, ma noi dobbiamo cercare di riportare a casa la pelle!”.
Mario sembra svegliarsi da un brutto sogno: “Sì, andiamo… che bel regalo per il mio compleanno”. Vedono spuntare da una galleria laterale il sorvegliante Brunacci: “La crociera fra la 12 e la 13 è franata, non si passa!”.
“Al Raffo, al Raffo!” grida Mario. “Svelti, muoviamoci!”. Riprendono a correre. Poco distante trovano un ferito, il Piani: è semi-incosciente, ha una gamba spezzata ed escoriazioni in tutto il corpo. Lo tirano su in due, lo sorreggono come meglio possono; i suoi lamenti non sono importanti, non c’è tempo da perdere. Percorrono a passo svelto la galleria, a un bivio si incontrano con quelli del pozzo 8.
Sono salvi.
Appena sente il campanello suonare, l’arganista non perde un attimo di tempo, li riporta su verso la luce. Intorno al pozzo si sta ammassando la folla; quando la gabbia si ferma, tutti si fanno incontro ai minatori per avere informazioni sui loro cari ancora sotto terra. Non ci sono risposte possibili, nemmeno loro si rendono conto di quello che è accaduto, hanno bisogno di riprendere fiato, di bere un sorso d’acqua, di capire.