Montemassi, giugno 2001

MEMORIE DI UN MINATORE

Florido Rosati ci racconta tutto quello che accadde il giorno della sciagura
 del 7 aprile 1956.



QUEL GIORNO IN MINIERA...

Arrivano i pullman dai paesi che vegetano attorno alla miniera di Ribolla. I minatori in fila agli spogliatoi a prepararsi per scendere nei pozzi. Alla lampisteria a prendere la lampada anti-grsù e là per i piazzali adiacenti ai pozzi di estrazione dove scendono pure gli uomini.
Il solito modo di salutarsi con diminutivo o vezzeggiativo secondo i casi. Ciao Beppe, Cecco, Nanni. E ancora. Ciao Sindaco, Assessore, Presidente, Segretario a seconda degli incarichi politici e sindacali ricoperti nei paesi e borgate di origine e nella stessa miniera.
Quando 15 minuti prima del cambio di turno l'urlo forte della sirena annuncia il cambio stesso. In fila ci apprestiamo alle bocche dei pozzi.
Indosso portiamo fiasca (contenitore per l'acqua da bere), tascapane, panni di ricambio, qualche arnese da lavoro: segaccio, ascia, accetta, ecc.
Sugli alti castelli costruiti con enormi travi di legno girano le pulegge che fanno scorrere i grossi canapi ai quali sono appesi gli ascensori (per noi: gabbie), vanno e vengono dal sottoterra alla superficie.
Il rombo sordo dei motori dell'argano lascia capire arrivi e partenze. Noi minatori, a dodici alla volta, ci stipiamo nei suoi contenitori.
In quello che sale i minatori che tornano a casa per riprodurre le consumate energie. Noi scendiamo nelle viscere della terra per produrre ricchezza (e c'è chi poi ne profitta).
È il viaggio che da secoli i minatori compiono per strappare alla natura enormi quantità di prodotti necessari alla vita del genere umano.
Anche quella mattina il sole scompare alla nostra vista, tutti pensiamo che non sarà per sempre. Dopo qualche minuto laggiù, a circa quattrocento metri di profondità, ci incamminiamo per le gallerie poiché ogni gruppo, ogni compagnia è segnata da un numero via via alle crociere (incroci di gallerie).
Cambiamo direzione, quelli della compagnia 1, della 7, della 12, e così via.
Ogni gruppo al suo lavoro.
Armatori, manutenzione, sostegno gallerie, minatori (abbattaggio), escavazione, produzione del materiale, disarmatori, recupero legname, riempimento dei vuoti prodotti dallo scarbonamento.
Carreggio, quelli che dalla compagnia spingono i carrelli fino ai pozzi di estrazione.
Camminiamo per gallerie e cunicoli sempre più stretti, più caldi, più angusti.
Anche quella mattina nella galleria di base ci cambiamo, indossiamo panni che di lì a poco saranno impastati di sudore e polvere di carbone o di terra, provocate da martelli perforatori e picconatori, a seconda della compattezza del materiale.
Appesi ai chiodi appositamente conficcati nelle assi di sostegno delle gallerie i panni che indosseremo a fine turno per risalire alla superficie; insieme la borsa con il pranzo frugale che consumeremo a metà turno in venti minuti, tanto è il tempo concesso.
La panierina (la borsa) è regolarmente costruita in lamiera zincata, in maniera che non entrino topi e scarafaggi che infestano le gallerie.
Anche gli orologi li nascondiamo in galleria fuori dal troppo caldo, dall'umidità e dall'onda d'urto delle mine che in qualche caso ne ha rotto i bilancieri.
I ventilatori per l'areazione sussidiaria sono tutti in moto, un cenno con le lampade e saliamo alle trance di lavoro.
Da quando siamo entrati alla bocca del pozzo sono passati circa trenta minuti. Poiché è il cosiddetto turno di giorno dalle ore 7 alle ore 15, a metà turno, alle ore 11, tutti a mangiare e dico precisi in quanto la direzione della miniera, per controllo dei suoi caporali, capo servizio, ingegneri (e perché no, qualche spia) non tollera un minuto di più previo biglietto di punizione con multa e, se recidivo, ci può essere il licenziamento.
Al fioco chiarore delle lampade, sotto lo strato di impasto, tra sudore e polvere che ricopre l'intero corpo dei minatori come porci usciti da un insoglio, tutti a dorso nudo, non traspare cellulite o grasso, i muscoli del dorso e degli arti tirati come corde di chitarra, risaliamo i piani inclinati su a sgomberare il materiale abbattuto, armare, ecc.
Il disarmatore ha finito il suo lavoro, ora dovrebbe recuperare il legname estratto o pulire qualche galleria. Ma un perito, certo Guidi, vuole un altro disarmo corto, semplice per come si presenta, non è sempre così è anche come riesce.
Il Pisani ha qualche perplessità a risalire ma, vista la richiesta del capo servizio, risale. In quella qualità di lavoro occorre tutta la lucidità di mente possibile e prontezza di riflessi; tirano via i sostegni uno dopo l'altro, intanto il tempo corre, il sudore, la fatica verso la fine del turno. I riflessi si appannano.
Una butta (asse di sostegno) non vuol venire, gira, tira e ancora dai. Sono passate le quattordici. L'anziano operai decide. Prende l'accetta. Un colpo, un altro ancora.
È uno schianto e la terra inesorabile lo inghiotte.
Io, Rosati, faccio parte della commissione antinfortunistica. Qualcuno dal fondo della rimonta ferma la ventola; mi chiama.
Un operaio sotto una frana; corro giù per la discenderia, su per un'altra, arrivo al vertice su quel lavoro.
Sento gridare e piangere insieme. È il sorvegliante Ricca: sta scavando con le mani. Mi accorgo che lo fa lasciando ancora scendere la terra.
È disorientato; lo faccio scansare, giro la schiena e le anche all'uscita della terra (tra l'altro molto fina), gli faccio scudo, scavo anch'io con le mani, raggiungo in breve la testa, il naso, la bocca, vado dentro con le dita, prendo la lingua. Nessuna reazione.
La terra, il caldo, l'hanno soffocato.
Bestemmie e imprecazioni contro tutto e contro tutti. Immediata la decisione su legname, tavole, un quadro, un'infilatura (parole d'intesa per i minatori).
Data la scarsità di spazio e d'aria restiamo in 4 o 5. Lavoriamo in maniera frenetica 20 – 30 minuti. Siamo sotto la cintura. Priviamo a tirare; non viene.
Qualcosa lo trattiene più in là. Altro portantino, altra infilatura. Sono passate le quindici: non ci concediamo né tempo né respiro.
Mi sdraio su quel corpo esanime, ora con le mani dentro la terra, raggiungo le scarpe. Proviamo ancora a tirare: non ce la facciamo.
Io, Santi, Ascoli e Luzzietti scivoliamo l'uno sull'altro come fossimo anguille in una pozzanghera di fango.
Sentiamo voci e lampade più chiare su per il piano inclinato. È un sollievo per noi. È la squadra di soccorso. Indossano gli autorespiratori. Sono Assirelli, Comandini e Fiorenzani. Noi ci rannicchiamo contro le pareti del cunicolo per far loro posto.
Afferrano lo sventurato compagno per le braccia. Una tirata ed è fuori.
Lo mettono sulle spalle di Goliardo, il più forte dei tre; gli altri, uno davanti e l'altro dietro, lo sostengono.
Scendono nella galleria di base. Anche noi scendiamo.
Sono le sedici passate. Il corpo del compagno Pietro viene portato su un carrello sopra due tavole. Parte per il pozzo da dove uscirà per l'ultima volta.
Nella galleria di base respiro qualche boccata d'aria, faccio per camminare e vacillo. Per qualche istante mi appoggio alle assi di sostegno della galleria. Ho lo sguardo un po' appannato; mi accorgo che la stessa sorte la subiscono quelli che sono con me.
Pochi passi e arriviamo al cambio dei panni. Prendo la fiasca dell'acqua, ne bevo qualche sorso.
È tiepida per la permanenza in galleria. Verso il resto sulla fronte e sul collo. Ci sediamo su dei pezzi di legno, ci togliamo le scarpe dalle quali esce un piscioletto di sudore; strizziamo i pantaloni, anche da essi esce il pisciolo di sudore, che poi legati con una cordicella portiamo a casa.
Impacchettiamo tutto. Le donne dei minatori sanno che ogni giorno occorre un cambio lavato e asciutto: ci servirà il giorno successivo per il solito lavoro.
Ci incamminiamo verso il pozzo, ci attende il boccaiolo (l'addetto agli ascensori). Saliamo su verso il sole. Qualche minuto di fruscio sulle guise. 400 metri e siamo all'uscita.
Dei compagni precedentemente usciti ci prendono le lampade, le portano in lampisteria.
Noi andiamo agli spogliatoi. Una breve doccia e agli autobus.
L'ambulanza è partita. Ha portato con sé un pezzo di tutti noi.
Negli autobus c'è rabbia, disperazione che si tocca con le mani, non ci sono parole fatte per nessuno.
Ai paesi d'origine l'attesa degli autobus è trepidante. Le famiglie hanno capito che qualcosa è successo.
Per chi torna è un brivido che si ricompone. Per chi è mancato, un dolore che mai passerà.
Quel giorno è toccato alla famiglia del caro compagno Pietro.
Il giorno dopo è un giorno di lutto e di protesta. Accompagniamo il compagno Pietro all'estrema dimora nel cimitero di Roccatederighi, là dove anche oggi le sillabe e i numeri incastonati in una pietra tombale di marmo ricordano il nome di un uomo onesto, operaio delle miniere, Pisani Pietro, morto il 7 aprile 1956.
I giorni successivi riprendiamo a lavorare. Ci rendiamo sempre più conto che l'enorme esercito del lavoro, fonte di tutte le ricchezze, troppo spesso paga con il sangue, con la vita, l'ingordigia degli altri.
Tutti i compagni morti sul lavoro hanno pagato con la vita per portare ai figli il pezzo di pane quotidiano e per l'avarizia e la ricchezza dei padroni del mondo e di quanti, con loro e per loro, sfruttano e uccidono.
45 morti in meno di due anni di cronistoria in una delle miniere italiane della Società Montecatini, a Ribolla, provincia di Grosseto.

Florido Rosati.

 Vittima 7 aprile 1956: Pietro Pisani.

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