Da LUIGI GERBELLA, (1938): Arte mineraria. Volume terzo. Ed. Hoepli.
Capitolo sesto: “Accidenti e misure di sicurezza”


EUROPA

Miniere di Courrières (Passo di Calais)
Il 10 marzo 1906, una esplosione di polveri di carbone fece, in queste miniere, ben 1099 vittime, percorrendo 110 km di gallerie.
La catastrofe devastò i cantieri di 3 miniere limitrofe A, B e C, ognuna delle quali aveva pozzi d'estrazione indipendenti, dislocati su di una lunghezza di circa 3 km, e fra loro collegati con gallerie.
Questo collegamento, giustificato da ragioni di sicurezza contro franamenti o inondazioni, perché assicurava il maggiore numero possibile di uscite, fu causa dell'estendersi dell'esplosione.



 

La ventilazione del complesso delle 3 miniere era molto complicata, ed esse non erano divise in cantieri indipendenti. Nella figura sono indicati i principali circuiti di ventilazione, e sono anche segnati i principali strati di carbone in coltivazione.
La miniera non era considerata grisoutosa, tanto è vero che vi si usavano lampade a fiamma libera, salvo in qualche avanzamento verso zone non ancora conosciute, nelle quali erano adoperate lampade di sicurezza a benzina.
L'esplosivo adoperato era la polvere Favier, coll'88% di nitrato d'ammonio e il 12% di binitronaftalina. Gli esplosivi di sicurezza (grisoutina – strato e grisoutina – roccia ) erano adoperati solamente nelle zone non ancora conosciute.
La miniera B aveva un solo pozzo, il pozzo n. 3 il quale serviva per l'estrazione, per l'entrata dell'aria, e a mezzo di uno scompartimento, isolato con diaframma in legno, serviva anche per riflusso d'aria.
Su questo pozzo era montato un ventilatore Guibal di 7 metri di diametro, che aspirava 7 metri cubi d'aria al secondo con una depressione di 35 mm.
L'aria che entrava si divideva in due circuiti principali.
Uno si dirigeva verso il Nord, e, dopo aver ventilato i cantieri negli strati Giulia (m 280 di profondità), S. Barbara (m 303) e Giuseppina (m 326), usciva dal pozzo n.2 della miniera C.
L'altro circuito si dirigeva verso Sud, e passando per gli strati Giuseppina e S. Barbara (m 299), usciva dal pozzo n 4 della miniera A.
Due derivazioni secondarie, destinate a ventilare dei tratti raddrizzati degli strati S. Barbara e Giuseppina, ritornavano, passando per la galleria a m. 280 di profondità, allo scompartimento di ventilazione del pozzo n 3.
Il pozzo n 11 della miniera A, serviva all'estrazione ed all'entrata dell'aria, la quale formava 4 circuiti di ventilazione, ai livelli 331 e 383, usciva quindi dal pozzo n. 4. A quest'ultimo faceva anche capo un riflusso d'aria proveniente dal pozzo n. 5, passando per il livello a 260 metri di profondità.
Al pozzo n. 2, infine, che serviva all'estrazione, per quanto fosse un pozzo di uscita d'aria, oltre che l'aria dei circuiti provenienti dal pozzo n. 3, arrivavano anche le correnti di ventilazione alimentate dal pozzo n. 10 e passanti per i livelli 307 e 354.
Nella notte dal 6 al 7 marzo 1906, un incendio di armature di legno molto secco, in una rimonta, dove un armatore aveva lavorato con lampada a fiamma libera, si produsse nello strato Cecilia, fra i livelli 326 e 280. Si provvide subito con sbarramenti a chiudere l'entrata d'aria in questi cantieri, aria proveniente dal pozzo n. 3, al livello 326. Con altri sbarramenti, eseguiti nella galleria di riflusso d'aria, al livello 280, nei giorni dal 7 al 9 si circoscrisse l'incendio, che aveva d'altronde assunto proporzioni limitate.
La catastrofe si produsse il giorno 10 alle ore 6,30, cioè quando gli operai del turno più numeroso della giornata erano già discesi. A detta ora, al pozzo n. 3, una gabbia a giorno fu lanciata a qualche metro di altezza e contemporaneamente un fumo denso invadeva la stazione.
Un fenomeno analogo si produceva al pozzo n. 11, ove la gabbia fu lanciata fino alle molette e fermata dai tacchetti di sicurezza. Allo stesso istante, dal vicino pozzo n. 4 usciva una violenta corrente di gas che lanciava in aria 4 operai intenti a delle riparazioni vicino alla bocca del pozzo.
Nulla di anormale fu invece notato alla stazione esterna del pozzo n. 2, ove l'allarme fu dato da un sorvegliante che risaliva da livello 306, e che aveva visto del fumo uscire da un fornello vicino alla stazione a tale livello, ed udito un forte rombo.
Gl'ingegneri accorsi diedero immediatamente la prime disposizioni per i salvataggi.
Si riconobbe subito che il ventilatore del pozzo n. 3 aspirava dell'aria fresca; il tramezzo in legno era dunque distrutto e la ventilazione seriamente compromessa.
Il ventilatore fu fermato e si deviò nel pozzo un canale d'acqua per ristabilire, alla meglio, la corrente d'aria discendente.
Due ingegneri discesi nel pozzo si accorsero che esso era ostruito, alla profondità di 50 metri, da rottami del tramezzo, dalle guide rotte, da traverse, palchetti, ecc.
Cercarono allora di aprirsi un varco fra i rottami, ma alle dieci di sera erano giunti ad appena 160 metri di profondità; era necessario anche consolidare al meglio tutti i materiali che minacciavano di precipitare.
Continuarono tutta la notte e tutto il giorno dopo ma l'ostruzione si dimostrava sempre più complicata, tanto che fu rinunciato ad entrare in miniera da quella parte.
Lo sgombro del pozzo n. 3 fu ripreso molti mesi dopo e richiese 35 giorni di lavoro.
I pozzi delle altre due miniere A e C rimasero invece accessibili, e per essi poterono salvarsi i pochi sopravvissuti alla catastrofe, appena successa l'esplosione, salvo qualche operaio che uscì, come vedremo, qualche giorno più tardi.
Gli ingegneri scesero immediatamente dalla scala del pozzo n. 11, mentre, in tutta fretta, si rimetteva in ordine la gabbia lanciata fino alle molette. Gli ingegneri fecero risalire 25 operai scampati, che si trovavano nelle vicinanze del pozzo, ed esplorarono le gallerie vicine, dove però furono arrestati da franamenti e da fumi irrespirabili, dopo aver accertato la presenza di numerosi cadaveri.
Il pozzo n. 2 fu immediatamente utilizzato per far risalire, con la gabbia rimasta intatta, pochi operai che avevano raggiunto le stazioni ai livelli 306 e 340. Questo pozzo però fu poco dopo invaso da fumi irrespirabili.
Alle 7,30 anche questo pozzo era diventato impraticabile e la circolazione delle squadre di soccorso non poteva farsi che attraverso il pozzo 10 situato a 500 metri a Nord del pozzo 2.
Alle 7 di sera fu possibile arrivare al pozzo 3, discendendo dal pozzo 10 e seguendo lo strato Giulia al livello 280.
La zona attorno al pozzo fu così esplorata la sera stessa del 10 e il giorno dopo.
Le gallerie erano sbarrate da franamenti a breve distanza dal pozzo o rese impraticabili dai gas prodotti dall'esplosione; nessun sopravvissuto rispose agli accorati appelli delle squadre di soccorso.
La sera di domenica 11 marzo tutti gli operai rimasti nelle miniere A e B e 150 operai dei cantieri del pozzo 2 erano considerati come perduti; lo stato delle vittime, trovate bruciate, fratturate o morte per asfissia, non poteva lasciare speranza di salvare altri operai rimasti in sotterraneo.
D'altra parte le squadre di soccorso non potevano avanzare se non con una corrente d'aria fresca alle spalle.
Gli ingegneri dello Stato, che fin dal 10 marzo avevano assunto la direzione delle operazioni di salvataggio, decisero allora di rovesciare la ventilazione nella miniera, trasformando il pozzo 3 in pozzo di uscita d'aria. Il groviglio di travi che ingombrava questo pozzo impediva il passaggio agli uomini, ma non alla corrente d'aria.
Si riuscì così a formare una corrente discendente nel pozzo 2, lunedì 12 marzo alle 6 di sera.
Fu allora possibile ridiscendere nel pozzo 2 ed esplorare i cantieri limitrofi, negli strati Giuseppina e S. Barbara, avanzando verso il pozzo 3 e portando a giorno i morti.
In questo lavoro, quanto mai duro e penoso per le numerose frane incontrate, e per l'odore insopportabile dei cadaveri, fu di grande aiuto una squadra di salvataggio della Ruhr, provvista di apparecchi ad atmosfera chiusa, squadra che marciava in testa con gli ingegneri ed era pronta a portare soccorso agli operai francesi in caso di inizio di asfissia.
L'aiuto era dunque materiale, ma soprattutto morale perché rincuorava tutti i presenti.
La mattina del 15 marzo iniziò un incendio in un piano inclinato, che sboccava al livello 340 nello strato Giuseppina, a 800 metri dal pozzo 2 verso il pozzo 3.
I fumi prodotti dall'incendio impedivano ulteriori ricerche nella zona e ne compromettevano l'esito.
L'incendio fu prima isolato con sbarramenti dalla parte dell'entrata dell'aria, e fu poi attaccato direttamente con getti d'acqua a pressione.

Il 30 marzo, alle 8 del mattino, durante le fasi più epiche della lotta contro il fuoco, comparvero alla stazione, al livello 306 del pozzo 2, tredici sopravvissuti alla catastrofe, miracolosamente sfuggiti alla morte, dopo 20 giorni di prigionia nella miniera.
Dopo l'esplosione si erano rifugiati in gallerie a fondo cieco, non invase da fumi, dove avevano vissuto 18 giorni nutrendosi con la carne di un cavallo ucciso e con avena trovata nelle scuderie.
Dopo vari infruttuosi tentativi di aprirsi un varco verso il pozzo 3, erano invece riusciti, attraverso le gallerie dello strato Giulia (dove avevano incontrato la corrente d'aria fresca, originata dalla ventilazione rovesciata) a raggiungere il pozzo 2.
L'inattesa apparizione, dando ai salvatori la speranza di poter incontrare ancora dei viventi, fece loro dimenticare qualsiasi norma prudenziale, e durante 4 giorni, dal 30 marzo al 2 aprile, furono percorsi, in mezzo a mille pericoli, tutti i cantieri del pozzo 3 non ancora esplorati. Purtroppo non furono trovati che dei cadaveri.
Il 2 aprile fu riaperto il pozzo 11, e si esplorarono quei cantieri nei giorni 2 e 3 senza risultati.
La mattina del 4 un quattordicesimo sopravvissuto, che viveva da 25 giorni prigioniero in un cantiere del pozzo 4, nutrendosi con i cibi delle colazioni dei compagni morti, si presentò inaspettatamente ad una squadra di salvataggio, che lo portò a giorno.
E' stato questo l'ultimo salvato della immane catastrofe.
Le ricerche continuate ancora per giorni e giorni non trovarono che cadaveri e costarono la vita, il 18 aprile, ad un operaio delle squadre di salvataggio che si era intempestivamente levata la maschera protettiva.

Le osservazioni fatte dopo la catastrofe hanno permesso di determinare il senso di propagazione dell'esplosione, ma non hanno stabilito con assoluta certezza il punto di partenza dell'esplosione, né tanto meno la causa iniziale di essa. Sono state però formulate ipotesi molto attendibili.
E' stato anzitutto accertato che il grisou non è entrato per nulla nel fenomeno. Infatti non solo questo gas non era mai stato trovato nelle miniere devastate, ma neppure l'inversione della ventilazione, operata il 12 marzo, era riuscita a far uscire del grisou dai vecchi lavori.
Se prima della catastrofe vi fossero state delle venute di grisou, passate inosservate ai coltivatori, questo gas si sarebbe, almeno in parte, accumulato nei vecchi lavori. Alterando il regime delle pressioni della miniera, il grisou sarebbe certamente uscito dai vecchi lavori; invece, durante tutto il tempo in cui si svolsero i salvataggi, non fu riscontrato grisou.
Nemmeno l'incendio nel cantiere dello strato Cecilia era stato la causa dell'esplosione.
Infatti gli sbarramenti costruiti per soffocarlo erano stati rovesciati dall'esplosione verso l'interno della zona incendiata. Da quest'ultima quindi non poteva essersi iniziata l'esplosione.
In definitiva la catastrofe non può essere spiegata se non come una esplosione di polveri di carbone, la cui propagazione è stata facilitata dalle comunicazioni esistenti fra le tre miniere.
L'esame degli effetti dinamici dell'esplosione (benne, armature porte di ventilazione trascinate e rovesciate, orientamento delle croste di coke sulle armature) ha dimostrato che l'esplosione ha avuto il suo punto di partenza in un tracciamento nello strato Giuseppina, tracciamento spinto con due gallerie gemelle parallele.
Gli ingegneri di Stato hanno concluso che la catastrofe di Courrière era senza dubbio dovuta ad un'esplosione di polveri di carbone, ma che era impossibile stabilire con certezza se l'infiammazione era dovuta ad una mina che aveva “fatto cannone”, ad una venuta improvvisa di grisou, o alla denotazione di un pacco di esplosivi nascosto in un tubo di ventilazione.

- Documento gentilmente concesso da Elena e Walter Scapigliati -

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