LA NAZIONE ITALIANA

del 21 ottobre 1958.

Continua il processo di Verona.

 

LE TESTIMONIANZE SU RIBOLLA
CONTRASTANO CON LE PERIZIE

Non sarebbe stato l'incendio a provocare il disastro -
Numerose contestazioni – Misure “a occhio” poco convincenti –
Il “gas di distillazione”

Verona, 20 ottobre.
Al quesito “Può essere stato l'incendio a provocare, direttamente o indirettamente, per effetto dei gas di distillazione e del calore, il disastro di Ribolla?”, i testimoni interrogati oggi hanno risposto di no.
L'incendio, hanno detto, al momento della esplosione, era praticamente già spento. Le gallerie interne, la zona del focolaio, erano ancora in parte ostruite dal fumo, ma si trattava di un fumo umido, bianchiccio, nient'altro che vapore acqueo. Nessun pericolo, perciò, in quel senso.
L'affermazione, in netto contrasto con le tesi dei periti d'ufficio, non ha mancato di sollevare, da parte del presidente e del pubblico ministero, le dovute obiezioni.
Ad Augusto Semprini, capo della squadra addetta alla prevenzione degli incendi, è stato chiesto come mai egli non fosse presente quella mattina, insieme ai suoi operai, nel posto dove si svolgeva l'opera di spegnimento. Il teste ha risposto che ciò non era necessario, proprio perché si trattava ormai di “piccola cosa”. Rifiniture, insomma. L'operazione poteva dirsi conclusa.
“E se era conclusa – ha osservato il presidente – come mai furono mandati giù altri operai della squadra a sostituire quelli uscenti?”.
“Il fuoco – ha risposto il teste – era praticamente già domato. Ciò non significa che, in tal caso, si debba procedere a una smobilitazione immediata e totale. Se non altro a titolo di precauzione, il lavoro continua, continua l'opera di innaffiamento, di controllo, eccetera. Sta, comunque, di fatto che al momento del disastro l'incendio era del tutto inattivo”.
Dopo il Semprini è stato interrogato, fra gli altri, l'operaio Aroldo Bianciardi, uno dei componenti della squadra anti – incendio. Quella mattina egli lasciò, dice, il pozzo di “Camorra” cinque minuti alle sette. Era questo il suo orario. La situazione di “giù” era ormai più che tranquilla. Nel posto dell'incendio c'era rimasto soltanto un poco di fumo e, inevitabilmente, un gran caldo. Ma non c'era più nulla da temere.
“Attendeste comunque, prima di andarvene, l'arrivo di quelli che dovevano montare per il cambio?” chiede il presidente.
“Signor no. Sapevo che cinque minuti alle sette dovevo salire e salii”.
“Sicché era unicamente l'orario quello che contava. Di altro non vi preoccupavate. Vi pare ben fatto?”
“Signor si. Dall'incendio, ripeto, non c'era più nulla da temere. Già sistemato, finito”.
“E, un'ora e mezzo dopo, il disastro. Proprio nella zona di quell'incendio che voi insistete a definire risolto”.
“Signor si. Risolto”.
Anche l'operaio Gino Senesi, comparso subito dopo, si dichiara del medesimo parere. Era entrato in miniera alle undici di notte e ne era risalito col turno del Bianciardi, la mattina alle sette meno cinque.
“A quell'ora – spiega – l'incendio era quasi completamente spento”.
“Quasi – ha sottolineato il presidente -. Cosa intendete dire con quel
quasi?”.
“Intendo dire che c'era soltanto fumo, vapore acqueo e calore; che di fuoco non si parlava più”.
Viene a deporre poi il teste Gino Ganni, in servizio nella zona sud di “Camorra”, che nella notte fra il tre e il quattro maggio effettuò, per incarico dell'ingegner Baseggio (brevemente interrogato in principio di udienza), il cambio delle batterie negli accumulatori di riserva. L'uomo spiega che la galleria trentadue, dove lui si trovava, era piena di fumo e che perciò era necessario, al momento dell'operazione, di disperderlo invertendo il circuito di ventilazione,
“A lavoro concluso – aggiunge – del fumo non restava che qualche nuvoletta”.
“Ne avete visti altri di questi incendi in miniera?”, gli chiede il dottor Rodini.
Il teste alza un braccio in gesto significativo. “Si, parecchi”, dice.
“E, secondo una impressione vostra, questo era più grave o meno grave degli altri?”.
“Gli incendi sono, su per giù, sempre gli stessi. Dal fumo, poi, si giudica male. Ne basta molto poco per intasare completamente una galleria”.
“E che potete dirci a proposito delle polveri di carbone? Erano molto dense a Ribolla?”
“Beh, il carbone un po' di polvere la fa sempre...”.
“Non vi ho chiesto se ce n'era <un po'>, vi ho chiesto se ce n'era troppa”.
“Non direi”.
Non è, evidentemente, da queste misurazioni “a occhio”, per quanto dovute a uomini di annosa esperienza, che il tribunale può attendersi elementi utili alla soluzione del problema. I minatori interrogati oggi – una ventina – hanno dimostrato tutti, su questo argomento, una notevole incertezza. Era poca, trascurabile, “normale” la polvere che, sospesa a mezz'aria, vagava per i sotterranei di Ribolla? Oppure si trattava di una densità eccessiva, quindi pericolosa? I periti, con i loro esami, hanno calcolato che a Ribolla la polvere di carbone aveva una densità (34 – 36 per cento), tre volte superiore al massimo previsto e consentito dalle norme di sicurezza e d'igiene. Ma, a quanto pare, a quanto cioè si può dedurre dalle testimonianze dirette, non era sempre e dappertutto così.
Analoghe discrepanze si hanno riguardo al famoso “gas di distillazione”: quel gas che, mischiandosi all'incriminata polvere, avrebbe consentito l'esplosione. Su questo soggetto il problema presenta, anzi, una serie di incognite anche maggiore: prova ne siano i contrasti che dividono qui non soltanto i periti dai consulenti, ma anche certi imputati fra di loro.
Si veda il caso dell'ingegner Tullio Seguiti. Egli fu il primo, si può dire, a indicare come probabile causa del disastro, anziché il grisù, il gas (ossido di carbonio in gran parte) sprigionatosi dall'incendio.
Questa tesi, però, se trovò consenzienti i periti, suscitò molti malumori nell'ambiente minerario. Particolarmente risentito se ne dimostrò il geometra Marcon, capo del personale e “vice” direttore di Ribolla. Il quale, in un suo esposto all'autorità giudiziaria, arrivò ad accusare l'ingegner Seguiti di “essersi inventato” l'assurdo gas.
Ora, queste controversie, specie dopo il ripiegamento dell'ingegnere verso la tesi comune, sembrano appianate.
Ma non troppo. Anche stamani, quale appendice alla sua polemica, il Marcon ha presentato ai giudici un altro memoriale: contenente, anche questo, una serie di critiche a quanto l'altro giorno l'ingegner Seguiti ebbe a dichiarare in aula durante il suo interrogatorio.

MARIO CARTONI

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Per gentile concessione di Roberto Calabrò