LA NAZIONE ITALIANA

15 ottobre 1958

Un ingegnere aveva segnalato la pericolosità del lavoro a Ribolla

 


Lunga deposizione del direttore generale delle miniere della “Montecatini” -
Contrasto fra le prime dichiarazioni e l'attuale tesi difensiva

Verona, 14 ottobre.
Altre voci, altri argomenti, al processo per il disastro di Ribolla.
Chiuso con stamane l'interrogatorio dell'ingegner Lionello Padroni, i giudici sono passati a vagliare la posizione dell'ingegner
Giulio Rostan che è, dei sei imputati, il più importante per ordine gerarchico.
Ci troviamo, qui, più che nell'alta sfera, nella stratosfera del meccanismo tecnico – amministrativo.
Giulio Rostan è il direttore generale del settore minerario del gruppo Montecatini. Ha sotto di sé settanta miniere, di cui quaranta in Italia e le rimanenti all'estero.
In questa veste, la sezione istruttoria lo ha rinviato a giudizio per rispondere delle accuse: a) di avere approvato l'adozione di sistemi di lavorazione pericolosi e in contrasto con le disposizioni del regolamento di polizia mineraria, relativamente a quanto contestato all'ingegner Padroni; b) di avere omesso di ordinare alla direzione delle miniere di Ribolla la sospensione del lavoro di coltivazione nella sezione “Camorra Sud” in attesa dell'apertura di una galleria di riflusso d'aria, nonostante che questa fosse programmata per il 1953, da lui durante quell'anno due volte sollecitata, e riportata nel programma del 1954, in quanto sempre da lui medesimo ritenuta necessaria ad evitare i gravi pericoli connessi con la natura grisutosa della miniera e il non eliminato sviluppo di incendi; c) di avere omesso di valutare l'attitudine esplosiva delle polveri di carbone, trascurando di fare adottare misure preventive in tal senso adeguate in tutta la miniera.

Problema drammatico
L'accusa contro l'ingegner Rostan è basata soprattutto sul fatto che egli, responsabilità gerarchiche a parte, sapeva quali rischi avrebbe potuto arrecare a Ribolla la nuova tecnica introdotta dall'ingegner Padroni, e ciò per esserne stato ragguagliato a tempo debito dall'ingegner Gaetano Carli, anch'egli parte in causa quale sovrintendente al settore minerario della Maremma.
Risulta, infatti, che l'ingegner Carli, poco persuaso della bontà del progetto varato dal Padroni, scrisse al Rostan, in data dieci settembre 1953, una lunga lettera in cui si diceva fra l'altro: “Sono molto preoccupato per quanto potrà avvenire in seguito alla coltivazione nel settore Camorra, specie considerando l'eccessiva incendiabilità del carbone”; lettera cui seguì, due mesi dopo, una dettagliata notizia tecnica dove si illustravano, sempre ad uso del Rostan, i “gravi inconvenienti di un sistema che prevede cantieri privi di afflusso e riflusso (il sistema, cioè, dei cosiddetti fondi ciechi), specie in rapporto alle prevedibili conseguenze che si avrebbero nel caso non raro né evitabile di un incendio”.
A questo si aggiungeva un accenno alle esitazioni e alle pressioni che si stavano verificando, proprio attorno a quel tema, da parte della organizzazione sindacale operaia.
Tuttavia, come si sa, il tanto discusso “piano Padroni” fu approvato e messo in atto: con le conseguenze che la sezione istruttoria direttamente gli addebita e deplora. Ma l'ingegner Rostan, messo di fronte alle gravi contestazioni, nega che sia stato il “sistema” all'origine del disastro, così come nega di avere approvato l'innovazione, a dispetto dell'esposto Carli, unicamente per motivi di carattere economico. Nega, in altre parole, di avere agito con la arida spregiudicatezza che viene attribuita agli uomini dei grossi affari.
Alla riserva di coloro che non credono nella “coscienza” dei pacchetti azionari, Giulio Rostan oppone la sua figura di “padre” ufficiale di un imponente complesso minerario formato, oltre che di cifre, di uomini. Ad essi, afferma Rostan, andarono le sue maggiori preoccupazioni all'atto di dover affrontare la crisi del dopoguerra, allorché esauritasi l'eccezionale richiesta di lignite connessa allo sforzo della macchina bellica (ingenti, soprattutto, le ordinazioni che provenivano, fra il 1944 e il 1945, dal comando alleato), sorse, drammatico, il problema di tornare alla normale produzione mantenendo inalterata, nei limiti del possibile, la eccedente misura della mano d'opera.

Condizioni straordinarie
“In un secolo di vita – ha detto il settantenne ingegnere Rostan – Ribolla è stata attiva soltanto il due periodi, corrispondenti alle due guerre. Specie nell'ultima si erano venute a creare condizioni straordinarie: il regime di autarchia, seguito dalle ordinazioni straniere. È sotto questa pressione del mercato che la società si trovò costretta ad ingaggiare nuovi operai, molti, moltissimi, più di quanti la miniera non richiedeva in tempo di pace.
Col ritorno alla normalità, ci trovammo alle prese con un organico sproporzionato. Che si doveva fare? Potevamo chiudere, rimandare a casa la gente. Ma non ce la sentimmo di arrivare a questo, perché ci rendevamo conto che sarebbe stato un dramma, e che dramma!, per centinaia e centinaia di famiglie. Sicché fu stabilito di tirare avanti, concedendo, come atto primo, alle miniere del settore maremmano crediti per dodici miliardi di lire. Nel contempo, fu provveduto a studiare nuovi e più adeguati piani di produzione. Fra questi, appunto, il progetto riguardante la nuova tecnica di sfruttamento delle miniere di Ribolla.
“Il progetto poteva apparire audace solo per il fatto che rappresentava una novità. Ciò è fatale. Ma non apparve, alla luce dei più ragionati calcoli, rischioso come l'ingegner Carli temeva. La esposizione e la motivazione di quei suoi timori fu opportuna e apprezzata. Ciò non toglie che tali dubbi potessero poi, all'analisi, rivelarsi inconsistenti.
Sulla carta, il progetto dell'ingegner Padroni soddisfece in pieno, così come del resto soddisfa tuttora. Perciò fu approvato. Si tengano presenti, per altro, le mie particolari condizioni e mansioni. La regia di settanta miniere comporta un vaglio quotidiano di chilogrammi e chilogrammi di carte. Ed è qui, proprio sulle carte, che le mie prerogative si compendiano e si limitano”.
Il presidente ha chiesto all'imputato il motivo di quella che poteva apparire una contraddizione in rapporto a quanto da lui stesso dichiarato in istruttoria, e ciò riguardo al fatto di avere ipotizzato, in un primo momento, la falda ovest quale epicentro della esplosione, per poi adeguarsi alla tesi difensiva che colloca, come è noto, l'origine del disastro all'opposto settore di “Camorra”, la falda est.
Giulio Rostan ha risposto che, trattandosi di opinioni, di congetture (anche le perizie d'ufficio non sono, in fondo, che una serie di congetture), un ripensamento è cosa più che lecita.
Le sue idee, è vero, inizialmente erano altre, ma una volta ascoltate le ragioni e le delucidazioni addotte dall'ingegnere direttamente responsabile, aveva finito per concordare pienamente con lui.
Dopo Giulio Rostan è stato interrogato l'ingegnere Gaetano Carli: il “dissidente”. Ciò di cui l'accusa lo imputa è, in parole povere, proprio il fatto di non aver insistito in quelle sua aperte critiche al “nuovo regime”. Ma questa, né all'imputato né ai giudici, è apparsa in definitiva gran colpa. Cosa poteva fare? Replicare, con un doppione, a quanto aveva già esaurientemente e chiaramente illustrato? Anche la sua non era che una tesi. Sentì suo dovere proporla, ma non ritenne giusto, né opportuno, insistere per imporla, quasi che si trattasse di una verità inconfutabile. Era una tesi sulla quale egli stesso poteva anche ricredersi e sulla quale, in effetti – ha aggiunto – si era poi ricreduto.

Marcia indietro
Ultimo interrogatorio della giornata, quello dell'imputato ingegner Tullio Seguiti, romano, chiamato in causa nella sua qualità di ingegnere capo del distretto minerario di Grosseto per avere, nella sua posizione di “collegamento” tra il sovrintendente di Ribolla e quello del settore maremmano, trascurato anch'egli, e consentito di trascurare, le buone regole dell'arte mineraria, con quello che segue.
Anche sull'ingegner Seguiti grava l'accusa, accessoria, di aver compiuto dai tempi del disastro a quest'oggi una piuttosto vistosa “marcia indietro”. Dopo essere stato, infatti, tra i primi ad attribuire le origini della sciagura al nuovo sistema di coltivazione (facendosi addirittura, in questo senso, parte attiva nella fase iniziale dell'inchiesta) aveva finito, dopo la sua (inattesa) incriminazione, per ripiegare sulla comune versione difensiva. Si è giustificato adducendo ragioni di “ripensamento” del tutto analoghe a quelle dei predecessori.
L'udienza riprenderà domani con l'interrogatorio degli ultimi due imputati, i tecnici minerari Marcon e Baseggio.

MARIO CARTONI

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Per gentile concessione di Roberto Calabṛ