LA NAZIONE ITALIANA

14 ottobre 1958

Ripreso il processo a Verona

 

IL DIRETTORE DI RIBOLLA DEPONE SUI SISTEMI DI LAVORO 
NELLA MINIERA
Difficoltà economiche e innovazioni tecniche – la protesta degli operai 
Una “cassetta delle idee” per il miglior funzionamento dell'azienda

Verona, 13 ottobre.
Ancora due lunghe udienze, mattutina e pomeridiana, dedicate all'interrogatorio dell'ingegnere
Lionello Padroni, direttore degli impianti minerari di Ribolla e conseguentemente, imputato numero uno al processo riguardante la sciagura del 1954.

“Quando, nel 1951, assunsi la direzione a Ribolla – ha detto stamani l'ingegnere, rispondendo al presidente Rodini – le condizioni della miniera erano pessime. Il lavoro di coltivazione era lento, gravoso e, quanto a rendimento, zero.
Anzi, peggio, l'impresa era paurosamente passiva. Si registravano deficit di centinaia e centinaia di milioni. Non era una situazione facile a risolvere.
Comunque, occorreva fare qualche cosa, speditamente e, bene inteso, nell'interesse di tutti. Per altre amministrazioni, in certi casi, la soluzione del problema è semplice: se l'azienda non va, si chiude.
Ma le tradizioni della nostra società sono nobili: quando prende una miniera, la porta in fondo, non l'abbandona. Ed è appunto in base a questo principio...”.

Il presidente non lo ha lasciato proseguire: “La prego, ingegnere, si limiti ai fatti e lasci i commenti e le osservazioni ai suoi difensori. Siamo qui per esaminare un problema non sotto il profilo morale, ma strettamente tecnico. Lei, in questo senso, ha delle responsabilità ed è di questo che ci deve rispondere. Le si addebita,in ispecie, il fatto di aver introdotto a Ribolla, al suo arrivo, nuovi sistemi di coltivazione del minerale, e cioè di aver sostituito all'antico metodo “a ripiena”, quello chiamato “a franamento”. A quali esigenze rispondeva questa sua iniziativa?”.

Impresa deficitaria
“La mia iniziativa – ha risposto l'imputato – era strettamente connessa alla situazione oltremodo critica di cui dicevo prima. Il vecchio sistema di coltivazione, che consisteva nel rinchiudere le gallerie
già sfruttate riempiendole di terra trasportata dall'esterno, aveva più di uno svantaggio in rapporto al nuovo procedimento: mano d'opera più numerosa, un impiego di legname destinato, in gran parte ad essere perduto, eccetera. È in base a questo che fu deciso di adottare la tecnica “a franamento”, secondo la quale le gallerie, una volta sfruttate, vengono, come si dice nel nostro linguaggio, “tappate alle estremità”, dopo essere state messe in condizione di “riempirsi” naturalmente, a mezzo di cedimenti e frane. Tale sistema risultò, d'altronde, del tutto soddisfacente”.

“Si. Non però, a quanto pare – ha osservato il presidente – dal punto di vista degli operai, se è vero che essi si ribellarono al nuovo regime”.

“Le rispondo: è verissimo. Gli operai non accolsero favorevolmente il progetto di cambiamento del sistema di lavoro. Si riunirono e mandarono anche una nota di protesta al Presidente della Repubblica, dove si sottolineava, fra l'altro, la pericolosità del nuovo sistema. Ma la realtà umana è diversa. È che essi avevano paura, più che della miniera, del licenziamento. Il nuovo sistema portava, infatti, come prima inevitabile conseguenza, ad una certa riduzione del personale: trecento operai di meno.
Sta di fatto, comunque, che col nuovo sistema di lavoro tutti si trovarono meglio. Io pensai, è vero, alle economie ma, tanto per cominciare, spesi cinquecentoventi milioni in migliorie”.

Spese e migliorie
“Lei così ammette, dunque, di aver agito per ragioni di carattere economico”.

“Certamente. Ma se il nuovo sistema era più economico, era anche, e soprattutto, più pratico. E che fosse pratico e non pericoloso, lo prova ciò che avvenne nel marzo del 1954, quando da me stesso sollecitato arrivò a Ribolla un ispettore del ministero, accompagnato da due funzionari.
Io volevo che, per tranquillità degli operai, l'ispettore visitasse, controllasse e desse il suo responso.
L'ispettore venne, controllò e se ne andò senza redarre una sola nota di disapprovazione o di critica, circa l'andamento dei lavori e circa l'efficienza del nuovo metodo”.

l'interrogatorio dell'ingegner Padroni è proseguito così sfiorando, uno dopo l'altro, tutti i tasti della delicata questione, anche quello, come si è visto, riguardante il suo aspetto umano e sociale; in una parola il suo lato sindacale.
È questo, anche se esula dal quadro del procedimento giudiziario, un punto dolente che sempre ricorre nel dibattito, a riportare sul tappeto uno stato di cose increscioso, un assillo, per risolvere il quale poco serve la buona volontà di chi a queste imprese sovrintende e poco servono gli ordini del giorno di chi queste imprese esegue.
Se l'impresa è deficitaria, fallimentare è una alternativa dolorosissima quella che viene a porsi alla coscienza di chi ha facoltà di decidere: o liquidare, oppure tirare avanti con i tentativi e con la speranza di conciliare con una più oculata amministrazione, l'esigenza umana che è, spesso, così diversa e contrastante alla praticità e alla logica.
Ora, nel caso di Ribolla, dato il deficit che pesa nel campo della lignite, solo un impegno “morale”, in effetto, può avere spinto la società amministratrice a continuare, laddove continuare significava perdere in continuazione e colmare il passivo con l'attivo proveniente da altri differenti settori.
Il risparmio, qui, non deriverebbe infatti da motivi di maggior guadagno, ma deriverebbe al contrario da ragione di minore perdita, e ciò allo scopo di mantenere quanto più era possibile invariato l'organico della mano d'opera.
Si tratta, quindi, in questo caso di stabilire se la più “snella” organizzazione creata dall'ingegner Padroni non lo sia stata eccessivamente; e se non sia risultata, per effetto di questo eccessivo “snellimento”, anziché più pratica e agevole, fragile e rischiosa; e fatale, infine, riguardo a ciò che accadde nel 1954.
Si tratta di stabilire se fu il nuovo sistema la causa, oppure la concausa, del disastro; ovvero se, come da parte interessata si sostiene, tutto avvenne “al di là” di un sistema che, in circostanze normali, si era rilevato sicuro ed efficace; per uno scoppio di grisou, ad esempio.
L'ingegner Padroni non dimostra di avere in proposito il minimo dubbio.
Uomo di provata esperienza della materia (egli proviene da un lungo tirocinio nelle miniere della “Terni”) e attento studioso dei problemi dell'arte mineraria (ha al suo attivo cinque brevetti), il direttore di Ribolla respinge nettamente l'accusa di avere forzato i limiti della sicurezza della miniera, fidando in innovazioni sempliciste e audaci.
Egli afferma, al contrario, di avere dedicato ogni sua attenzione e ogni sua risorsa alla soluzione del “problema Ribolla”: e cita, a riprova di questa su cura, l'assiduità con cui egli indiceva riunioni tra il personale tecnico, affinché dallo scambio di pareri potesse emergere qualche nuova idea degna di applicazione e che consentisse di migliorare questo o quel settore.
Aveva istituito a questo scopo, sul modello americano, anche una “cassetta delle idee”, aperta a qualunque operaio intendesse fornire il suo personale contributo, con suggerimenti o anche critiche.
Quanto al sistema dei “fondi ciechi” da lui istituiti e a lui, fra l'altro, rimproverati, l'ingegnere capo ha sostenuto che detto sistema non solo non era vietato dai regolamenti, ma era perfettamente conforme alle conquiste ultime dell'arte mineraria.
Dannoso per la ventilazione? Tutt'altro. Quanto alla sua pericolosità, ha detto l'ingegner Padroni, uno dei pochi che si salvarono dal disastro fu un operaio, un certo Lero Vecchiarelli, il quale, al momento della tremenda esplosione, lavorava proprio nella cavità di uno di questi incriminati “fondi ciechi”.
Lo spostamento d'aria non lo raggiunse.
E questo è tutto. Sentiremo, nelle prossime udienze, le tesi degli altri cinque tecnici imputati nel medesimo procedimento.
L'udienza, sospesa a tarda sera, è stata rimandata a domani mattina.

MARIO CARTONI

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Per gentile concessione di Roberto Calabṛ